Home » Zanetti: ”Il lavoro paga, ringrazio mio padre, mi ricordo quando Mou mi disse..”

Zanetti: ”Il lavoro paga, ringrazio mio padre, mi ricordo quando Mou mi disse..”

Oggi, Javier Zanetti ha visitato l’Unversità Cattolica di Piacenza, dove ha ripercorso e ricordato alcuni momenti inerenti alla propria carriera.

Ecco le parole del vicepresidente dell’Inter agli studenti presenti:
Agli studenti mi sento di dire di fare le cose con passione e con una cultura del lavoro. Io ho studiato per questo incarico, sto perfezionando l’inglese, è una nuova vita. L’obiettivo è ora quello di costruire una società con dei valori importanti”.

Più simpatica la Juventus o il Milan? ”Ho grande rispetto per entrambe”.

Messi o Maradona? ”Idem, Messi è il migliore al mondo – contro il Barca nel 2010 ero diffidato e Mourinho mi disse che l’avrei marcato: pensavo di essermi giocato la finale -, Maradona ha dato tanto alla nostra Nazionale. Siamo fortunati che siano argentini”.

Ronaldo o Cambiasso? ”Ronaldo un fenomeno, tu correvi da una parte e lui dall’altra, ma il “cuchu” é un amico. Il secondo”.

Maldini o Totti? ”Ho sempre ammirato la carriera e la professionalità di Maldini, siamo amici fuori dal campo. Spero che Francesco possa finire al meglio la sua carriera”.

Meglio vincere tre scudetti o una Champions? ”Meglio vincere, però Madrid è stato uno dei momenti più belli della mia vita”.

Terzino o centrocampista? ”Preferivo terzino”.

Giocatore o dirigente? ‘‘Il calcio mi ha regalato molto in 23 anni di carriera, spero di avere altrettanto successo come dirigente”.

Il modello di vita: ”Il mio modello è sempre stato mio padre. Era un muratore, vedevo i sacrifici che faceva con mia madre per non farci mancare nulla. Si alzava alle 5 di mattina e tornava alla sera: dopo cena andava subito a dormire perché si doveva alzare presto e faticare. Da lui ho imparato tantissimo. Parlava poco ma le parole che diceva erano sempre quelle giuste. Ringrazio i miei genitori dell’educazione che mi hanno dato”.

Poi Zanetti continua dicendo: ”Ho avuto la fortuna di arrivare al calcio italiano, che mi sembrava lontanissimo. Sognavo questa possibilità e mi è arrivata quando non me l’aspettavo. Ero in Sudafrica con la Nazionale giovanile per un’amichevole : Passarella mi disse che l’Inter mi voleva. Tornai in Argentina e cambiò la mia vita: dovetti lasciare la mia terra, la famiglia e la fidanzata Paula, poi diventata mia moglie. Mi chiedevo se fossi pronto per un’esperienza del genere, là giocavo in una piccola squadra. Avevo dubbi ma sapevo che era la mia opportunità. Sono cresciuto così portando rispetto a tutti. E comportandosi così mi hanno sempre rispettato. La cosa più importante nella vita e nella professione è ciò che lasci come persona. Al successo non si arriva da soli. Per costruire una squadra vincente c’è bisogno di tutti. Nell’Inter eravamo calciatori di paesi e religioni diverse, ma entravano in campo con una sola maglia e lottavamo per quella».

Poi l’ex capitano nerazzurro conclude dicendo: ”Arrivai nel ’95 in un’operazione di mercato con il mio connazionale Rambert. I primi tempi non sono stati belli, mancavano le vittorie. Però non ho mai pensato di lasciare questa società: sulla bilancia pesava sempre di più il mio amore per questa maglia, il rapporto con i tifosi e con la famiglia Moratti. Sono uno che crede nel lavoro e quando uno fa le cose fatte bene, il lavoro paga. Ho aspettato questo tempo e ho avuto ragione. Non potevo andare via senza prima aver dato una gioia ai tifosi come quella notte a Madrid. In quei due anni con Mourinho abbiamo vissuto i momenti più gratificanti. Aveva metodi di preparazione mai visti in Italia e convinse il gruppo che si poteva fare sempre meglio. C’era molta cultura del lavoro e tutti i miei compagni avevano grande esperienza. Fu un gesto spiacevole la maglia lanciata da Balotelli con il Barca. Non abbiamo avuto il tempo di reagire in spogliatoio che si era subito accorto dell’errore. Gli abbiamo parlato e detto che era un momento della stagione importante. Battere quel Barcellona è stata un’impresa. È un gesto che un tifoso non può accettare”.