Icardi: “Gli errori di gennaio per migliorare. Sull’Europa League e l’infortunio…”
Il centravanti argentino e capitano dell’Inter, Mauro Icardi, ha parlato ai microfoni de La Gazzetta dello Sport della sua avventura nerazzurra e dell’infortunio patito nella prima stagione a Milano, oltre a trattare il suo rapporto con i social e i suoi esordi. Queste le sue parole:
Le origini e il trasferimento alle Canarie per la crisi in Argentina:
“Sebastian, il primo ragazzo che conobbi arrivato alle Canarie. Mi chiese “Sai giocare a pallone?” e io non dissi né sì né no, feci solo quel gesto. Poi mi vide in campo e si rispose da solo: ci ridiamo ancora su, quando ricordiamo”;
L’Inter e i due mesi terribili:
“Ci ha fregato gennaio e da lì in poi ci è mancata la cattiveria che ti fa dire “Dai, ce la possiamo fare”. Certi errori dovevano già servirci per questo finale di stagione, che non sarà da buttare solo se servirà per non sbagliare di nuovo, la prossima. Cioè se quella che giocheremo sarà l’ultima Europa League: aspettando ancora la Champions, ma non aspettandola e basta”;
Partenza dall’Argentina:
“Il viaggio della vita, nel senso che me l’ha cambiata, l’ho fatto a 9 anni: da Rosario a Gran Canaria, troppo grave la crisi in Argentina per vivere lì. Era giugno, ma papà era là da marzo a preparare il trasloco e avevamo già lasciato la nostra casa, che era separata solo da un muro dal campo del Sarratea, il mio club: per tre mesi abbiamo vissuto lì, in una stanza accanto agli spogliatoi, che mamma chiudeva a chiave quando c’erano gli allenamenti. Il giorno prima di partire, festa a sorpresa e regalo: un enorme lenzuolo bianco
con la scritta “Non c’è oceano che possa separarci quando porti Sarratea nel sangue”. Non piansi per quello, ma per il mio cane Toto, il più famoso del barrio perché abbaiava e correva dietro a tutti. A un certo punto ho lasciato la festa e sono andato a sedermi accanto a lui, per salutarlo: “Vado a fare il mio primo viaggio in aereo”. In realtà era il primo viaggio fuori dal mio quartiere e a mamma chiedevo: “Che lingua si parla là? Cosa mangeremo? Avrò degli amici?”. Ma appena arrivato ho conosciuto Sebastian: lui mi avrebbe fatto giocare nel Vecindario e sarebbe diventato il mio fratello delle Canarie”;
L’idolo:
“Quello che da bambino vedi come idolo, se non è un’infatuazione e basta poi diventa modello: per me, si sa, Gabriel Batistuta. La prima “visione” fu davanti alla tv, una sua partita con la Seleccion. La prima mania, i pupetti che regalavano se compravi la Coca Cola: avevo la collezione completa ma lui rispetto agli altri stava da un’altra parte, al sicuro, intoccabile. La prima emozione grazie alla rivista “El Grafico”, a quei tempi andavano in giro per i club e regalavano ai giovani calciatori una copertina finta con un fotomontaggio, e ovviamente avevo scelto di avere Bati vicino. E pensare che poi non c’è stata occasione di avvicinarlo davvero: mai riuscito a conoscerlo di persona, magari un giorno. In compenso ho sempre sperato di riuscire a rubargli il segreto di quella forza che metteva quando giocava, ti sembrava che mangiasse il campo. Io lo so che adesso sto dall’altra parte, perché ci sono bambini o ragazzini che vorrebbero essere Icardi, ma non è che ogni volta sto lì a pensare: “Mauro, occhio che ti guardano”. Anche perché credo di essere abbastanza intelligente da sapere cosa di me “si vede bene” e cosa invece “si vede male”;
Il rapporto con i social:
“Chiariamo, una volta per tutte: oggi quasi tutti hanno almeno un profilo, ma io uso i social network da molto prima di quasi tutti e non come tanti, che nascondendosi dietro l’anonimato si divertono a giudicare. Sapessero quanto ci divertiamo io e Wanda, a leggere quello che scrivono… Tanto giudicare è gratis, si può far diventare bad boy anche il ragazzo più semplice del mondo, come credo di essere nelle cose essenziali: uno normale che fa cose normali. E’ per questo che posto foto e scrivo: chi mi guarda e mi conosce per quello che faccio in campo, così può vedere anche chi sono e come vivo fuori da lì, perché io mica vivo dentro il campo. Ecco perché non mi pento di nulla, neppure di mettere foto dei miei figli, compresi quelli di Maxi: vivo con loro 365 giorni all’anno, anche loro sono la mia vita. Mi chiedono: ma non diventa una schiavitù essere così social? Ma perché? Se sei un personaggio pubblico, in un certo senso “sei di tutti”. E poi a volte, è inutile fare i finti puristi, è anche una questione di lavoro: quando devi firmare un contratto pubblicitario ormai la prima domanda che ti fanno è sempre quella, “Hai un profilo?”;
Famiglia extra:
“Prima di stare con mia mamma papà Juan aveva avuto due mogli, con un figlio dalla prima e due dalla seconda. Poi con mamma Analia siamo arrivati io, Ivana e Guido. Poi quando ero ancora a Barcellona si sono separati: papà è tornato con la seconda moglie, mamma dalla sua nuova relazione ha avuto da poco due gemelli e gliel’ho anche detto che è una scelta un po’ così, “a più di quarant’anni devi rifare la mamma, e potevi fare solo la nonna”. E comunque: totale otto fratelli. E io considero fratelli veri tutti, non solo Franco, il più grande, quello che quando ancora non capivo bene mi spiegava che si può avere lo stesso papà, ma non la stessa mamma. A parte il calciatore, Juan ha fatto di tutto: imbianchino, meccanico, macellaio, prima di aprire un negozio di alimentari con la mamma. Si prendeva in giro da solo, “Soy aprendiz de todo y oficial de nada”: non siamo mai stati ricchi ma siamo sempre stati felici, nella nostra famiglia aperta. Ma non è per questo che oggi sento anche Valu, Coki e Benchu come figli miei, e anzi Wanda mi rimprovera perché mi dedico più a loro che a Francesca: lo sono perché sono figli della donna che ho scelto, la prima che mi ha fatto pensare di volere una famiglia. A 1415 anni mi dicevo “Farò dei figli presto per viverli da giovane”, ma non avrei mai pensato così presto. Un altro ancora? Wanda vorrebbe, io le dico “Facciamo crescere questi e poi godiamoci un po’ la vita noi”. Chi “vincerà”? Boh…”;
L’infortunio all’Inter:
“Ha idea di cosa significa per un calciatore avere un pallone fra i piedi e non riuscire a calciarlo ad un metro, per il dolore? La pubalgia è così: sai come viene, non sai quando se ne andrà. A me venne per colpa di una serie di tiri a fine allenamento, mi scivolò il piede e mi stirai un muscolo intercostale: iniziai a dormire male, a camminare male, si infiammò il pube e come se non bastasse mi toccava anche sentire cazzate tipo che tutto dipendeva dal troppo sesso con Wanda. Mi sarei dovuto fermare subito ma a me non piace star fermo, e figuriamoci arrivare alla Pinetina presto solo per fare massaggi, punture, risonanze: non sono tipo da depressione, ma accorgermi di non riuscire a dare nulla a tifosi che quell’estate mi avevano accolto come un re non era un bel pensiero. Molto peggio che decidere di lasciare il Barcellona: anche oggi, anche pensando a che squadra è, non lo vedo come chissà quale buco nero nella mia carriera. Non sono l’unico che se n’è andato da lì, non è mica la fine del mondo: o perlomeno, io me ne sono andato con un sorriso. Come sempre, quando sono io che scelgo di fare una cosa”.