La vostra Superga, il nostro dolore
“Ci fu un tempo in cui i calciatori erano come noi, solo giocavano meglio a pallone. Ci fu un tempo in cui i calciatori venivano da dove veniamo noi, solo che alle volte venivano da posti peggiori. Ci fu un giorno, in quel tempo, in cui i migliori di loro furono inviati a giocare altrove da un destino infame”. E’ martedì mattina. Sono da poco passate le 7. Sono sveglio da un amen. Accendo la Tv su Sky Sport. L’occhio, ancora semichiuso, cade sulla striscia gialla con la scritta in nero “Ultim’ora”. Provo a focalizzare meglio. Leggo: “Precipita aereo, a bordo la squadra brasiliana del Chapecoense“. Per chi come me abita a Vercelli, distante un alito di vento da Torino, la memoria non può che correre subito al 4 maggio 1949. La tragedia di Superga: il giorno in cui il destino infame inviò, parafrasando l’incipit inziale firmato da Federico Buffa, i migliori di sempre (e per sempre) a giocare in un’altra dimensione, creata oltre l’azzurro del cielo. Anche perché era di Vercelli uno di quei giocatori che “non potevano perdere mai”. Si chiamava Eusebio. Eusebio Castigliano. Oggi il “suo” un campo è al rione Cappuccini di Vercelli: ci sgambettano i bambini che, come faceva lui, inseguono quel pallone ancora per passione e non per soldi. L’occhio semichiuso, intanto, ruota verso la caffettiera: sta eruttando il caffè bruciato. Non importa. Riesco solo a cambiare con il telecomando e mettere su Sky Tg 24. Niente.
Non ci sono ancora notizie ufficiali: si dice, ma i si dice valgon niente (e chi fa cronaca nera lo sa bene), che ci siano dei superstiti. Internet. Giusto, internet. Niente di ufficale anche lì. Tutti fermi a quell’ultim’ora. Chi è di Vercelli, dicevo, viene cresciuto con la religione della Pro Vercelli: i sette scudetti, la leggenda del venerabile Silvio Piola, gli attuali campionati di Serie B dopo anni trascorsi negli scantinati del calcio professionistico e dilettantistico. Una religione che, stando a mio zio, vecchio cuore granata, può consentire un solo peccato, che per lui ovviamente peccato non è: tifare appunto per il Torino. Già, peccato che il Torino, per chi come mio zio è nato a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, è quel Torino. E quindi a te, che sei ancora un bambino di quattro, cinque anni e non hai ancora deciso a quali santi calcistici votarti, viene raccontata come una squadra di un’altra dimensione. Già… Di un’altra dimensione. Poi capita che ti innamori di un ragazzo di viale Ungheria che fa il portiere nell’Inter e decidi che, va bene tutto, ma la religione, zio, me la scelgo io. Resti, però, talmente affascinato dal mito del Grande Torino che inizi a divorare qualsiasi cosa tu possa su quella leggenda che ha vinto cinque scudetti di fila. Intanto lancio Google e digito Chapecoense. Apro il link della Gazzetta dello Sport. <
Proprio come i giocatori del Grande Toro: erano come i loro tifosi, solo giocavano meglio a pallone. Venivano, da dove vaniamo i loro tifosi, solo che alle volte i calciatori venivano da posti peggiori. Passa la gioranta, intanto. Leggo sulla chat di Interdipendenza che c’è da fare un pezzo sulla tragedia. Sono le 13. Per chi come me è di Vercelli, è “doveroso” farlo: è la Superga del Brasile, d’altronde. Mi propongo. Accettano. Ma con il passare delle ore, mentre cerco di mettere in piedi qualcosa di accettabile, passano anche le ultime speranze. Il bilancio è agghiacciante: 75 morti su 81 persone che viaggiavano a bordo. Sono le 17. Mi metto finalmente a scrivere. Apro Twitter. C’è il cinguettio del Toro: “E’ un destino che ci lega indissolubilmente, vi siamo fraternamente vicini“. Resto immobile, proprio come quando ho appreso, alla mattina, la notizia. Ragazzi, il Grande Torino ora vi aspetta per giocare una partita che non potrà finire mai: proprio lassù oltre l’azzurro del cielo. Ah, se vedrete Valentino Mazzola rimboccarsi le maniche… bè, auguri: inizierà il quarto d’ora granata e il Paradiso vi sembrerà un po’ meno bello. A parte le battute: ci sarà da divertirsi. Bom jogo, amostras.
Di Matteo Gardelli