Riquelme e Ronaldinho provano a far sognare ancora la gente della Chapecoense
Il Chapecoense come il Grande Torino
E’ il 4 maggio del 1949. Il mondo del calcio si ferma. La più forte squadra italiana di tutti i tempi è volata per sempre in un’altra dimensione. Poche ore dopo la tragedia, il presidente del River Plate telefona al collega Ferruccio Novo per organizzare una partita al Filadelfia per omaggiare il suo Grande Torino. Novo dice sì. In quei giorni il River deve giocare una partita del campionato argentino, ma manda in campo la seconda squadra (ah, Huracan battuto comunque).
In quelle ore, poi, le due società raggiungono un accordo: Alfredo Di Stéfano, sì proprio la Saeta Rubia che non sarebbe diventato un semplice giocatore del Real Madrid ma “IL” Real Madrid, sarebbe venuto a giocare al Torino e il Torino sarebbe ripartito da lui. Ma quando lo chiesero a lui, come racconta Federico Buffa nella puntata dedicata alla leggenda granata da cui abbiamo attinto l’attacco di questo articolo, i due presidenti rimangono gelati: <<Volentieri, ma non posso. Sono già in parola con i colombiani…>>.
Già, i colombiani… Colombiani proprio come l’Atletico Nacional: la squadra che, in queste ore, avrebbe dovuto sfidare la Chapecoense. Avrebbe, appunto. Perché un destino infame ha portato il mondo del calcio a fermarsi un’altra volta e per un’altra sciagura aerea. Ma se è vero com’è vero che nulla succede per caso, da una tragedia senza tempo potrebbe nascere una favola senza confini. Perché sempre, ma soprattutto dopo tragedie come quella della Chapecoense, ci dev’essere solo ed esclusivamente spazio per i sogni.
Riquelme e Ronaldinho al Chapecoense
Dal Sud America, in queste ore, sta rimbalzando una voce: “Riquelme e Ronaldinho si sono offerti per sei mesi, gratis, al Chape”. Se di Dinho, in Europa, si sa di tutto e di più, è di Roman che, purtroppo, in pochi sanno tutto. Ma è proprio per capire che portata avrebbe questa coppia con la maglia del Chape, che bisogna capire chi è Juan Román Riquelme, El Mudo, argentino di San Fernando. L’Argentina è la terra della fine del mondo. Buenos Aires è la capitale.
E a Bueons Aires c’è un quartiere, il quartiere della Boca. Lì, il 3 aprile 1905, ha generato il Club Atlético Boca Juniors. Non Club come gli altri fin dalla scelta dei colori: il giallo e il blu erano infatti quelli della nave svedese che i cinque fondatori videro arrivare nel porto mentre, appunto, stavano cercando di scegliere i colori. Il Boca, dicono i tifosi, ma non solo i suoi tifosi, ha avuto la fortuna di veder giocare per due volte Dio con una casacca e delle scarpe da calcio ai piedi: prima Diego, El Diez della storia del calcio, poi appunto Román “El Mudo”, il muto. Un viso da indios e un piede da consegnare al primo commissariato perché troppo illegale per essere vero. Ha avuto classe, Román. Ha classe, ancora oggi che di anni ne ha 38, Román. Ha vinto cinque campionati argentini, tre coppe Libertadores, una coppa Intercontinentale.
E ancora. Ha giocato 30 partite, segnando 3 reti nel Barcellona, ha portato il sottomarino giallo del Villareal (il Villareal, mica il City milionario dove anche uno scarpone può avere un attimo di gloria) a una storica semifinale di Coppa dei Campioni. Poi è tornato a casa. Poi è ritornato alla Boca e al Boca. Perché potremo girare il mondo, potremo riempire tutte le caselline di decine di passaporti, ma alla fine torneremo sempre là dove siamo nati. A gennaio 2015, scrisse di lui la miglior pagina di calcio che vive su Facebook, “Dio è del Boca”: <<Quando Román appenderà definitivamente le scarpe chiodo il calcio terminerà la sua esistenza ed il cielo piangerà lacrime di sangue. Le ultime. Perché finirà con lui il romanticismo e se ne andrà per sempre l’ultimo dei Román(tici)>>.
Un tributo meritato al Chapecoense
Ecco. Il destino infame si è sicuramente accorto di averla combinata grossa con l’ennesima tragedia. Ed, ora, a quanto pare, cerca di rimediare. Román e Dinho insieme con la maglia del Chape sarebbero la reunion dei Pink Floyd, sarebbero Jimi Hendrix che torna indietro per suonare, ancora una volta, Hey Joe; sarebbero Troisi che gira ancora un film e De Andrè che (ci) scrive ancora una ballata.
Román e Dinho insieme con la maglia del Chape sarebbero la perfetta risposta al calcio moderno: il calcio dei Millonarios, proprio come la squadra che “soffiò” Di Stefano al Torino, dove vince chi ha più soldi. Ecco perché se fosse vera la voce, se davvero, cioè, Román e Dinho vestissero la maglia del Chape, allora, quelli del Chape non sarebbero passati ad altra dimensione invano: perché ci avrebbero ricordato che si muore per davvero solo quando si smette di sognare.
Matteo Gardelli