Una carriera da leggendaPer capire la grandezza di Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro non bisogna fare riferimento ai suoi numeri, fianco eccessivi, ma a due calciatori che si sono già consegnati alla leggenda del gioco. Il primo ha scalato la sua “Stairway to heaven” il 25 novembre 2005, mentre il secondo l’ha percorsa il 14 luglio 2014. Entrambi, in quel ragazzino venuto da un’isola che sembra “dispersa” nell’Oceano Atlantico, avevano visto il loro vero erede mentre il mondo ne indicava erroneamente altri. La prima leggenda, ad esempio, disse di David Beckham che in molti vedevano come suo illuminato successore per indossare “la 7” per eccellenza del calcio mondiale: <>. Poi vide quel talento, appena acquistato dallo Sporting Lisbona, all’epoca un ragazzetto con il volto ancora segnato dalla gioventù, e disse: <>. Il secondo, volendo, fece molto di più. Rimase in vita per vedere quel ragazzo, ormai divenuto uomo, segnare 17 reti in 12 partite e consegnare al Real Madrid Club de Fútbol la mitologica Decima Coppa dei Campioni. Lui che quella Decima l’aveva pronosticata non appena quel ragazzo, divenuto uomo, venne acquistato per oltre novanta milioni di euro. Poi, come se non avesse più nulla da vedere in questo mondo, come se non ci fosse nulla di più bello da vedere di una Coppa dei Campioni vinta in finale dal “suo” Real contro l’Atletico, se ne andò una quarantina di giorni dopo. Per capire la grandezza di Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro, dicevamo all’inizio, basta semplicemente continuare a ricordare questi due aneddoti legati a George (The) Best e a “don” Alfredo Di Stéfano: rispettivamente l’icona pagana del Manchester United e “il” Real Madrid Club de Fútbol. Nessun altro giocatore ha (e probabilmente mai avrà) la fortuna di ricevere due benedizioni così. Quattro palloni d’oro e non è finita ancora Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro, che ha appena alzato il suo quarto Pallone d’Oro, è già oggi uno dei giocatori più forti di tutti i tempi: prima di lui nessuno aveva portato, nel calcio, il fisico a un simile livello di perfezione, come nessuno aveva sottoposto la propria mente a una costante ricerca dell’impossibile. C’era riuscito un altro uomo, ma in un altro sport: si chiama Michael Jeffrey Jordan. Come lui, Cristiano Ronaldo ha dovuto conquistarsi il mondo perché, come il 23 dei Bulls, prima di lui c’era qualcun altro: se per Jordan c’era da togliere le corone dalle teste dei Magic Johnson e dei Larry Bird, per il portoghese c’era e c’è da competere con quello che (forse) è attualmente il più forte di tutti, Leo Messi. Attenzione: il più forte di tutti ma oggi. Non nella storia. Perché, piaccia o meno, Leo dovrà sempre confrontarsi, senza mai avere successo, con il “Diez” per eccellenza. Ma questa è un’altra storia. Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro, dicevamo, ha portato nel calcio la religione che Jordan ha applicato al basket e alla vita: “I limiti come le paure, spesso, sono solo un’illusione”. Non ha avuto paura, Cristiano, di indossare la 7 dello United. E non ha avuto paura di prendere per mano Sir Alex Ferguson, anche se più correttamente bisognerebbe dire “non hanno avuto paura di prendersi per mano”, e portarlo, come Best fece nel 1968 con Matt Busby, a vincere una Coppa dei Campioni. E non si è posto limiti quando il Real Madrid Club de Fútbol gli consegnò l’eredità di “don” Alfredo Di Stéfano: cioè, oltre vincere tutto quello che c’era da vincere, doveva anche impersonificare i veri valori del madridismo. Non si è posto limiti e non ha avuto paure, poi, con la sua nazionale. Ha ragione Massimo Gramellini quando dice che la più bella partita di Cristiano Ronaldo con il Portogallo è stata la partita che non ha giocato: quella contro la Francia in finale dell’Europeo. Perché si è visto come un ragazzo, venuto da lontano, ha insegnato a un’intera nazione a non aver più paura della propria ombra calcistica: così, come un grande regista, ha quasi voluto rimanere dietro le quinte, lo scorso luglio, durante la scena finale. Ma, come un grande regista, aveva già preparato, nelle partite precedenti, il set perfetto e irripetibile. Così, quel ragazzo venuto da un’isola dispersa nell’Atlantico, ha superato anche “il” mito portoghese Eusebio. Insomma. Trentuno anni dopo la sua comparsa su questo pianeta, dopo 270 gol in 247 partite con il Real Madrid Club de Fútbol, dopo 84 gol in 196 partite con il Manchester United, dopo 68 gol in 138 partite con il Portogallo, dopo 1 Supercoppa portoghese, dopo 3 campionati inglesi consecutivi (2007, 2008 e 2009), dopo 1 FA Cup, dopo 2 Coppe di Lega inglesi, dopo 2 Supercoppe inglesi, dopo 1 campionato spagnolo, dopo 2 Coppe di Spagna, dopo 1 Supercoppa spagnola, dopo 3 Champions League, dopo 1 Supercoppa Uefa, dopo 2 Mondiali per club, dopo un Europeo a squadre e dopo 4 palloni d’Oro, possiamo tranquillamente ritenerci fortunati: perché fra qualche anno potremo dire “Noi c’eravamo”. Eccome se c’eravamo a vedere questo ragazzo, ormai divenuto (super)uomo, conquistare la leggenda di questo sport.Matteo Gardelli