Quando a mancare è solo il coraggio. Il caso Gabigol
26 agosto dell’estate scorsa, il mondo neroazzurro si sveglia con un entusiasmo a cui non era abituato da tempo. Si, perché dopo settimane di trattative, di voci, di attesa e di dietrofront dovuti al fair play finanziario c’era stata un’accelerata improvvisa: stavano arrivando Joao Mario e Gabigol. Gabigol e Joao Mario. Più Gabigol che Joao Mario. Si, più Gabigol, perché con lui si iniziava a credere che la strada potesse essere quella giusta: quella dei giovani di prospettiva, quella dei talenti appena sbocciati, quella in cui finalmente si poteva giocare d’anticipo, senza dover vedere sfumati acquisti ad opera delle superpotenze del calcio perdendo la speranza di vederli indossare i colori nerazzurri a meno di sborsare cifre esorbitanti (vedi Lucas), quella in cui si riesce persino a soffiare giocatori alla Juventus (che ha inseguito Gabigol a lungo, cosa che molti dimenticano o fingono di farlo).
Eppure già da quel 26 agosto iniziava accadere qualcosa di strano. Si perché quello stesso ragazzo di cui si era detto fino a quel momento un gran bene più o meno in tutto il mondo calcistico comincia a diventare qualcosa di diverso. Inizia ad essere bollato (soprattutto dai tifosi avversari ma purtroppo non solo) come un sicuro bidone, come l’ennesimo acquisto sbagliato ma pagato a peso d’oro, gli ennesimi 35 milioni buttati (critiche VOLUTAMENTE ignare del fatto che il prezzo reale è stato nettamente inferiore, ma parlare di 35 getta ancora più fango sulla credibilità dell’Inter).
E quello che accade in seguito è storia nota.
La stagione inizia (male), sembrano esserci segnali di un’inversione di rotta dopo la gara con la Juventus, salvo poi ricadere nel baratro, fino al cambio di allenatore. E in tutto ciò per Gabigol ci sono solo pochi minuti a disposizione, dai 15 contro il Bologna fino alla maggiore frequenza (sempre nei minuti finali) con Stefano Pioli, passando per la chance dal primo minuto in Coppa Italia ancora con il Bologna.
E si arriva a Empoli, dove proprio Pioli lo fa alzare dalla panchina; perché siamo zero a zero, perché bisogna segnare, perché bisogna vincere per sperare nella rimonta. Ma Icardi non c’è, e allora chiede a Gabigol di buttarla dentro. E lui lo fa. Entra, segna, porta tre punti; è decisivo, è finalmente protagonista, e non per le “giocate da circo”, ma perché fa quello per cui è stato acquistato. Si inizia a pensare che possa essere quello l’inizio effettivo della sua avventura in serie A. Ma poi per l’ennesima volta succede qualcosa. Gabigol sparisce, non gioca più. Negli ultimi minuti, o quando c’è bisogno di buttarla dentro, non si alza più dalla panchina, ma al posto suo entrano Eder, Palacio, e al derby addirittura Biabiany; ma non Gabigol.
E la sensazione ad oggi è che sia successo qualcosa nello spogliatoio. Perché altrimenti che senso avrebbe smettere di dargli possibilità quando finalmente aveva iniziato a far vedere quello che sa fare?
Forse è successo davvero qualcosa (la bottiglietta scagliata nel finale contro la Sampdoria è un indizio in questo senso), o forse no.
Forse la verità è molto più semplice di quella che si sta dipingendo. E no, non intendo dire che la verità è che ilragazzo sia un bidone (termine tanto caro ai tifosi avversari ansiosi di attribuire all’Inter l’ennesimo flop di mercato, l’ennesimo spreco di risorse che potevano essere meglio impiegate).
Perché magari anche questo ragazzo merita lo stesso privilegio che è stato concesso a molti altri giocatori, come lui alla prima esperienza in quello che probabilmente è il campionato tatticamente più duro al mondo (oltre che il meno paziente). Perché di esempi di questo genere ce ne sono diversi. Eppure non sembra essere importante; non quando si parla di Gabigol; non quando si parla dell’Inter.
Basti guardare in casa Roma (Gerson) o alla stessa Juventus, squadra e società ormai presa ad esempio di perfezione sotto ogni singolo aspetto, che sia calcistico, finanziario o manageriale, ma che comunque si ritrova in casa un Marko Pjiaca che prima dell’infortunio non detonava grosse differenze rispetto a Gabriel Barbosa. Già, perché l’unica differenza sta nell’attenzione che viene dedicata a questi giocatori (anche a livello di prezzo di cartellino non sembrano essercene molte).
Anche Mourinho al primo anno di Inter, da allenatore, parlava di una necessità di ambientamento alla realtà della nostra seria A.
E come detto di esempi di calciatori provenienti dall’estero ed esplosi dopo un primo anno non esaltante ce ne sono diversi, basti pensare a titolo di esempio ai vari Felipe Anderson, Milinkovic Savic, Suso, lo stesso Kondogbia, e a quel Dybala ormai equiparato a Messi, e che eppure stentava nel Palermo in serie B.
A parere di chi scrive sarebbe quindi sbagliato non attendere almeno la prossima stagione prima di elargire giudizi definitivi.
Ma sicuramente questa è solo una parte del quadro generale. Perché sarebbe rischioso (oltre che fin troppo facile) racchiudere tutta la questione in un discorso di ambientamento, senza effettuare una valutazione interna del mondo Inter.
Perché anche da questo punto di vista gli esempi di giocatori che hanno recitato il ruolo di meteora con i nostri colori per poi esplodere altrove sono diversi. E viene da pensare che quanto detto da Materazzi circa l’incapacità dirigenziale dell’Inter possa avere più di qualche fondamento.
Qualche giorno fa Mario Sconcerti ha parlato di una malattia che affligge la sponda nerazzurra di Milano, da cui non ci si riesce a liberare, come se ci fosse una sorta di maledizione che investe anche la materia dei giovani talenti che non riescono a sbocciare fino in fondo, salvo poi trovare la piena consacrazione con altre maglie. E il paradosso trova la sua compiutezza quando nelle miriadi di voci di mercato (verosimili o meno) che accompagnano le varie sessioni di mercato iniziano a rientrare nel fatidico taccuino di Ausilio quei nomi di giocatori che dell’Inter già facevano parte, senza trovare spazio, salvo poi diventare ottimi giocatori una volta ceduti. Basti pensare ai vari Benassi, Duncan, Coutinho, Bessa, fino ad arrivare a quei nomi per i quali il cerchio del rientro alla base si è addirittura compiuto, come Santon e Biabiany (per il quale ormai si è perso il conto).
Ma anche in questo caso parlare di maledizione può avere il sapore della scusa. Magari la soluzione giusta è davvero quella più semplice. Perché Coutinho all’Inter faceva fatica a esprimersi mente al Liverpool è considerato un fenomeno? Forse semplicemente perché il Liverpool non ha fatto solo un investimento in termini monetari, ma poi ha deciso di credere in quell’investimento, schierando il giocatore con regolarità, dandogli fiducia, non rintanandolo in panchina alla prima partita storta; insomma banalmente facendolo giocare.
Perché magari una volta che si spendono 27 milioni per un giovane si dovrebbe avere il coraggio di portare fino in fondo la scelta che si è fatta, e prendersi il rischio di ritrovarsi un fenomeno in casa. Perché adesso la Champions League è sfumata. L’Europa sembra raggiungibile solo dalla porta di servizio, con la prospettiva poco allettante di preliminari che potrebbero gravare sulla preparazione estiva (inoltre se davvero quest’estate porterà grandi colpi, forse concentrarsi solo sul campionato con una super-squadra potrebbe non essere l’idea peggiore). E allora se la situazione è questa, sarebbe davvero così strano buttare Gabigol nella mischia in queste ultime giornate e vedere cosa succede? O è davvero possibile ambientarsi senza giocare? La logica probabilmente suggerisce di no. Magari la scoperta del “nuovo Ronaldo” è soltanto a un po’ di coraggio di distanza.