La caduta di un “Dio”
La caduta di un “Dio” …
Sono passate circa quarantotto ore da quando, durante la partita di Europa League fra Manchester United e Anderlecht, il ginocchio di Zlatan Ibrahimovic è appassito in diretta mondiale. Non è passato un singolo istante, invece, in cui, vedendo e rivedendo quella scena da brividi, non abbia pensato a una canzone di Fabrizio De Andrè.
Proprio come il protagonista, anche Zlatan è venuto da molto lontano, Malmö, per convertire “bestie e gente” nel mondo del calcio. Ha sempre avuto le stigmate del predestinato, Zlatan. Fin dai tempi dell’Ajax il suo talento è sempre stato ‘troppo’: troppo per una squadra che, ai tempi, non era più quella che aveva non solo giocato un calcio ma visto prima, ma giocato un calcio mai pensato prima. Quell’Ajax di Zlatan era lontana parente di quella di Cruijff. Eppure, come il protagonista della canzone di Faber, “prese la terra per mano”: certo, non era “vestito di sabbia e di bianco”, Zlatan, ma vedendo quello che faceva in campo, qualcuno iniziò da subito a definirlo Santo.
Tanto è vero che, alla fine, il meteorite ha impattato con il pianeta serie A. Come De Andrè, ora, non intendo cantare la gloria delle sue gesta in bianco e nero, ma è doveroso ammettere che un giocatore con quelle caratteristiche, in Italia, non si vedeva dai tempi di Van Basten. Più Zlatan segnava, più il suo ego diventava spropositato. Più il suo ego cresceva, più Zlatan divideva: non veniva “odiato nel Getzemani”, come il protagonista della canzone di Faber, ma veniva comunque denigrato. Arrogante, sbruffone erano gli zuccherini che una certa parte della stampa sportiva italiana iniziava a riservargli.
Poi ci fu Calciopoli
E solo un pazzo poteva pensare che l’ego di Zlatan si sarebbe accontentato di una ‘misera’ serie B. Così, siccome nel suo sangue bolle sangue gitano, arrivò da noi. Boom. Un altro impatto devastante. Ripetere cosa ha fatto Zlatan con la maglia dell’Inter sarebbe una piacevole perdita di tempo, ma limitiamoci a ricordare una partita: Parma. Un tempo da tregenda, un’Inter verso un’altra tragedia, fino a quando il numero 8 non si alzò dalla panchina. Ero a Parma quel giorno. Ero a Parma e mi sembrava di essere ricatapultato indietro nel tempo a Roma. Sì, quella del 5 maggio. Ma poi, in un attimo, francamente – come nella canzone di De Andrè – ho iniziato ad adorarlo come Dio, ho iniziato a dire che andava lodato per sempre.
Il resto è storia recente: Barcellona, dove si scontrò con un diversamente visionario del calcio, poi la sponda sbagliata di Milano dove comunque si confermò dominante e ancora Parigi. Quando hai sangue gitano e il vento dell’Ovest inizia a soffiare, devi spostarti. E’ più forte di te. Infine Manchester dove lo stavano erroneamente dando per finito. In tutti questi anni Zlatan è sempre stata dimostrazione di strapotenza: fisica, mentale. Sempre. E ogni ad ogni stagione, ad ogni vittoria, sembra invincibile.
Ma siccome gli Dèi tormentano chi vedono, ecco… Zlatan come tutti è caduto. Come il protagonista della canzone di De Andrè, “come tutti cambiando colore, è sbiancato come un giglio”. Certo, i suoi detrattori ora diranno: “Non ha mai vinto niente in Europa”. Tranquilli. I tuoi discepoli, Zlatan – io sono fra questi – non ti abbandoneranno mai. Ad ogni critica nei tuoi confronti, ricorderemo che il falso erede di Diego, vestendo la maglia numero 10 di cuero blanco dell’Argentina, ha sempre fallito.
In realtà, oggi, siamo tutti un po’ più tristi. Dicono che starai fuori nove mesi, che la tua carriera potrebbe essere finita. Noi crediamo di no. Gli Dei cadono, ma si rialzano sempre. Come il protagonista della canzone di De Andrè, non sei altro che un uomo, è vero, ma come Dio devi passare alla storia.
Coraggio, Zlatan