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1 Bersellini: nell’ode di Ciotti il posto d’onore era il suo2 Un uomo normale per un compito speciale3 In due anni la squadra vincente4 La cavalcata dello scudetto del 1980Bersellini: nell’ode di Ciotti il posto d’onore era il suo
Inter: chi non l’ha sentita dalla voce di Sandro Ciotti in diretta non può capire.
Non può immaginare cosa fossero quei trenta secondi per le orecchie degli interisti incollate alla radiolina per tutto il calcio minuto per minuto, quell’anno che l’Inter stava mettendo tutti sotto.
“L’Internazionale schiera Bordon tra i pali, Baresi e Oriali terzini esterni, Pasinato mediano a sostegno, Canuti stopper, Bini libero, Caso ala di raccordo, Marini e Beccalossi gli interni ,Altobelli e Muraro le punte. In panchina il sergente di ferro Eugenio Bersellini”.
Non era una formazione comunicata ai radio ascoltatori.
Era una poesia, una meravigliosa ode che solo ad un genio come Sandro Ciotti poteva riuscire, e che i tifosi interisti avevano mandato a memoria.
E che a distanza di tanti anni dà ancora i brividi a risentirla su qualche canale della rete.
L’ultimo nome recitato da Ciotti era sempre il suo, l’allenatore di ferro.
Un uomo normale per un compito speciale
Bersellini arrivò dal nulla a San Siro, aveva allenato solo squadre di seconda fascia fino ad allora.
C’era da ricostruire l’Inter dopo la fine del ciclo di Herrera, e c’era bisogno di un manico con gli attributi, dopo diversi tentativi andati a vuoto.
Un mister che oggi i media definirebbero ancora più normale del “normal one”.
Solo a vederlo in fotografia ti veniva naturale un giudizio “è un burbero, un caratteraccio”.
Lo era davvero Eugenio, e proprio per quello riuscì laddove i suoi predecessori avevano fallito.
I campionissimi avevano lasciato quasi tutti, i sostituti non avevano offerto garanzie né successi.
Bersellini dovette lavorare senza guardare in faccia a nessuno, senza ascoltare i richiami dei successi passati, badando solo al sodo.
In due anni la squadra vincente
Ci mise un paio d’anni a far passare il suo metodo di lavoro.
Ma intanto aveva messo in squadra un giovanissimo Beppe Baresi, aveva fatto arrivare da Brescia il Beck e Spillo, qualche altro giocatore non di primissima fascia ma di grande sostanza (Scanziani, Mozzini).
Erano 10 anni che l’Inter non vinceva il campionato, l’ultimo era stato quello di Invernizzi con la tabellina di Mazzola e Corso per siglare le tappe del recupero sul Milan che era partito come un razzo.
La cavalcata dello scudetto del 1980
I nerazzurri partirono subito fortissimo.
Una serie di vittorie normali e qualche perla indimenticabile come la doppietta di Evaristo nel derby d’andata e le quattro pere rifilate alla Juventus, con Altobelli che si portò a casa il pallone della tripletta e Carletto Muraro a chiudere le danze.
L’Inter vinse quello scudetto alla terzultima giornata, con un gol di Roberto Mozzini alla Roma che siglò il 2-2 che valse il titolo.
Mozzini, uno dei giocatori più normali, meno appariscenti, anche in quegli anni.
Non i divi Beccalossi e Altobelli, non la freccia Carletto Muraro.
Fu Mozzini a portare lo scudo all’Inter, come a dire l’esaltazione della normalità che diventa successo enorme, clamoroso.
La normalità del lavoro, dell’applicazione, della serietà dei comportamenti.
La straordinaria normalità di un grande uomo normale, Eugenio Bersellini.
In quella poesia di Sandro Ciotti, l’ultimo posto, quello d’onore, era per il suo nome.
Sarà così anche nei cuori di tutti noi tifosi nerazzurri, Sergente di ferro Eugenio Bersellini.