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Morte di Astori, perché non giocare è la scelta più saggia

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1 Astori, giusto non giocare. Quando c’è di mezzo la vita passa tutto in secondo piano. Lo sport celebra la gioia. E ieri di questa non ce n’era nemmeno un briciolo2 Il calcio è gioia3 Il calcio non è paragonabile a un’impresa4 Lo show non deve andare avantiAstori, giusto non giocare. Quando c’è di mezzo la vita passa tutto in secondo piano. Lo sport celebra la gioia. E ieri di questa non ce n’era nemmeno un briciolo

La morte di Davide Astori ci ha lasciati interdetti. Senza parole. Certe tragedie scavano un solco profondo tra le certezze e le incertezze della vita. In quel solco, adesso, ci sono solo lacrime e un vuoto incolmabile. Fai fatica ad accettare che un ragazzone di 31 anni, in piena salute, un marcantonio di 1,90 possa essere portato via in questo modo. Improvvisamente, silenziosamente. E con una drammaticità inspiegabile.

Nelle ultime ventiquattro ore ne ho sentite tante sull’opportunità di fermare il campionato o meno. Ebbene, per me la decisione di fermare tutto è sacrosanta. Inappellabile e morale. Alla legge morale si ubbidisce spontaneamente e immancabilmente. Non può essere condizionata dai calcoli del campionato, dai recuperi da fare, dal calendario intasato. No, non può e non deve essere così, c’è una vita di mezzo. E la vita è sacra.

Il calcio è gioia

Ieri a Firenze molti bambini hanno portato fiori e disegni all’“Artemio Franchi” per omaggiare il capitano che non c’è più. Bambini che reputano i calciatori loro eroi. Quei piccoli, che a differenza di alcuni adulti, per i quali era giusto giocare, hanno voluto elaborare questo lutto, hanno voluto fermarsi a riflettere. Bambini che stanno cercando una spiegazione, un perché a tutto ciò. Bambini che ieri, con le lacrime agli occhi, hanno scoperto che gli eroi possono anche morire.

Lo sport è un momento di allegria assoluta. Non dobbiamo dimenticarlo mai. Ecco perché ieri è stato giusto non giocare. Ecco perché ieri tutte le squadre non se la sono sentita. Con quale stato d’animo sarebbero scesi in campo i giocatori? E quelli che con Astori avevano un rapporto fraterno e d’amicizia, come avrebbero potuto avere la mente libera per giocare con tranquillità? Non scherziamo. Esprimiamole pure le nostre opinioni. Ma non scherziamo.

Il calcio non è paragonabile a un’impresa

Ho letto un articolo di Lorenzo Vendemiale su “Il Fatto Quotidiano” che mi ha molto turbato. A un certo punto il giornalista inizia a fare allegri paralleli che non stanno né in cielo né in terra tra il mondo del calcio e quello professionale e del lavoro. Secondo la sua opinione non c’era nessun motivo per non giocare perché i calciatori devono fare i professionisti. Proprio come farebbe in “caso analogo qualsiasi giornalista, medico, insegnante, avvocato, commesso, spazzino, che andrà a lavoro perché i giornali continueranno ad uscire, le imprese a funzionare, gli ospedali e le scuole a offrire il loro servizio.”

Se anche avessimo avuto il potere di obbligare i giocatori a scendere in campo, avremmo commesso una grave mancanza di rispetto, nei confronti di Astori e dei calciatori stessi, shockati e giustamente provati. Non è buonismo, ma la scelta libera, naturale di un mondo che sente di omaggiarlo riflettendo compitamente. O devo credere, caro Vendemiale, che sarebbe d’accordo nel far entrare in sala operatoria per un intervento delicato un medico che ha appena subito una tragedia familiare? Non sarebbe nelle condizioni di poter svolgere con la dovuta attenzione un compito assai delicato e magari vitale.

Incuriosito su Vendemiale, sono andato a cercarmi la sua biografia, la quale, tra le altre cose, dice: “Ho passato anni a studiare gli eroi e la poesia del mondo antico. E ho scoperto che nella società moderna lo sport è quel che più assomiglia alle emozioni con cui sono cresciuto.” Ora, caro Vendemiale, o ha dimenticato gli eroi classici o il calcio non la emoziona più. Perché parlare di poesia e poi affogarla in un bicchiere di superficiale materialità non è il massimo della coerenza.

Lo show non deve andare avanti

Sono la passione e i sentimenti che alimentano il calcio. E il fatto che qualcuno voglia ancora metterli davanti a tutto mi tranquillizza parecchio. Il fatto che per qualcuno lo show non debba andare avanti è segno tangibile di quell’umanità e sanità di valori che può darci speranza e salvarci dalle aberrazioni. Veda, Vendemiale, non è questione di “sentimenti personali”, è questione di sentimento collettivo. Un sentimento che unisce l’Italia nel nome del pallone. Un sentimento di leggerezza, non di greve mestizia, come sarebbe stato se ieri si fosse giocato.

Quello del calcio è un rito collettivo che va consumato con gioia e senza pensieri nefasti. Se viene meno la serenità e la spensieratezza che lo contraddistinguono nulla ha più senso.
Intanto Astori se n’è andato, lasciandoci con la triste realtà che anche gli eroi vanno via. E quei bambini al “Franchi”, per i quali il calcio è la fabbrica dei sogni, lo stanno già capendo. Vittoria, la figlia di Davide, sarà un giorno commossa quando gli mostreranno le immagini del padre mentre tirava calci ad un pallone. E felice perché tutti si sono voluti fermare per onorarlo. In quel momento capirà quanto grande fosse il papà, che da oggi la veglia da lassù.