A Giampiero Marini non è toccato neanche l’onore di una canzone. Ligabue la sua vita da centrocampista di lacrime e sangue l’ha immaginata per Lele Oriali, ma il Pirata non era da meno, anzi. Marini è stato 11 anni nell’Inter dal 1975 al 1986. In quel periodo i giornali non si occupavano di quanto costassero le bottiglie di vino consumate dai giocatori al ristorante. Anche perché le frivolezze non erano costume di quegli anni, tanto meno nell’Inter di Bersellini, che fu il padrone della Pinetina per la maggior parte di quei tempi. Sotto gli ombrelloni, in estate, si leggeva del mercato al mitico hotel Gallia. Finito quello, iniziavano le disquisizioni sull’undici titolare delle varie compagini e in tutti quegli anni, con regolarità svizzera, Marini figurava in panchina, tra le riserve. Alla fine della stagione successiva con altrettanta regolarità, era tra coloro che avevano giocato di più.
Questo fatto da un lato fa pensare che la qualità del giornalismo sportivo italiano, nella migliore delle ipotesi, è rimasta ferma a quegli anni. Dall’altro dimostra che gente come Marini un posto in campo lo ha sempre trovato e sempre lo troverà. Quando hai polmoni d’acciaio, l’intelligenza per essere al posto giusto nel momento giusto, quella per farti rispettare dagli avversari senza farti beccare dall’arbitro più di tanto, un posto negli undici titolare non te lo toglie nessuno.
Pirata per qualcuno (per il coraggio), Piedone per altri, in virtù delle estremità non propriamente raffinate. Gianni Brera lo chiamava Pinna d’oro a causa della sua corsa non elegantissima, a piedi divaricati
Fu lui a dare a Bergomi il soprannome che lo ha poi accompagnato per tutta la vita. Un giorno, entrando negli spogliatoio, vide quel ragazzino intento ad allacciarsi le scarpe. A dispetto della giovane età aveva due baffoni già importanti. “Sembri mio zio” lo apostrofò Marini. E da quel giorno l’immagine di Beppe Bergomi cambiò per sempre.
11 anni di Inter sono una vita, specie se vissuta insieme a Beccalossi. Altobelli, Bordon, Muraro, Oriali. Gente normale, che aveva lavorato davvero prima di darsi al calcio, ma che misero insieme una delle squadre nerazzurre più romantiche di sempre, una di quelle a cui i tifosi che l’hanno vissuta guardano con maggiore simpatia. Perché non erano undici individui uno accanto all’altro, era un gruppo vero, unito, una testuggine di volontà e di affetti condivisi. Marini lo ricordava in una intervista di qualche anno fa, rispondendo ad una domanda sulla felicità. “La felicità per me prima, quando facevo il calciatore, era quella di svegliarmi alla mattina e di avere il desiderio di indossare la maglia dell'Inter ed allenarmi: questa era la felicità quotidiana.”
Restò in nerazzurro anche dopo aver appeso le scarpette al chiodo, ad occuparsi di giovani. Nella stagione 1993-94 il Presidente Pellegrini lo chiamò a guidare la squadra dopo l’esonero di Bagnoli. In quel momento era responsabile del settore giovanile dell’Inter e stava seguendo i ragazzi impegnati nel torneo di Viareggio. Fu l’anno del 13mo posto, di una salvezza strappata all’ultimo tuffo. Ma Marini qualcosa di buono riuscì a farla, nonostante tutto. Portò a casa una Coppa Uefa inaspettata, in mezzo a uno stadio che ribolliva d’entusiasmo dopo una stagione di sofferenze. All’andata Berti aveva messo in frigo un successo pesante ma le incertezze di tutta una stagione pesavano come un macigno. Marini capiva gli uomini e capiva soprattutto i suoi giocatori. Prima della finale di ritorno a San Siro con il Salisburgo disse “Mi basta uno sguardo per capire cosa faranno”. Non aveva torto il vecchio Malik.
A Lodi, dove ancora vive, sotto la bacheca con la pergamena e la medaglia che ne fanno un Cavaliere della Repubblica, fa bella mostra di sé una chitarra. Nessuno la suona dal 1982, nessuno ha il permesso di impugnarla. E’ una chitarra speciale, quella che Marini aveva con sé in Spagna, nel mondiale vinto dagli azzurri. I ritiri ancora non conoscevano selfie, whatsapp e diavolerie varie. In qualche momento di relax Marini strimpellava alla meglio Baglioni, Guccini, Dalla e tutti gli altri gli andavano dietro. In quello strumento ormai vecchio c’è tutto l’orgoglio di un operaio del pallone diventato campione.
E meno male che in nazionale c’era arrivato tardi. Le prime due maglie azzurre a 29 anni nel 1980, la terza a 30. Sembrava quasi un contentino di fine carriera. Ma Bearzot sapeva riconoscere gli uomini dai caporali e lo portò con sé fino a fargli alzare la coppa del Mondo del 1982 a Madrid. In una foto rimasta leggendaria dopo il trionfo mondiale del Bernabeu, si vede il “vecio” allenatore ormai esausto, in maniche di camicia, che lancia un bacio con la mano. Quel segno d’affetto era per il suo Pirata, silenzioso, prezioso, affidabile come nessun altro.
Dopo aver chiuso con il calcio ha inseguito le sue grandi passioni, Bob Dylan e la borsa. Il cantautore americano dovunque fosse in concerto in Europa, la finanza studiandola fino a diventare un ottimo broker, anche troppo, fino a svegliare tre volte in una notte Beccalossi, suo compagno di camera per la festa dei 60 anni di Spillo Altobelli a Sonnino. Per cosa? Per controllare l’andamento della borsa australiana… Nei bilanci delle società di borsa c’è sempre un pareggio tra dare e avere. Lo stesso in quel calcio, quando Marini doveva correre tre volte per compensare la scarsa mobilità del Beck.
“Cazzo Becca, ci stiamo facendo un culo così, facci vincere ‘sta partita” ringhiava Marini. Per il Pirata alla fine i conti dovevano tornare, sempre, tutte le domeniche .