Non c’è bisogno di fare Triplete per avere un posto d’onore nella memoria dei tifosi e nella storia dell’Inter. Personaggi il cui spessore umano e morale è più grande di qualsiasi titolo, che inondano di sé la memoria della gente anche quando il tempo vorrebbe cancellare tutto. Eugenio Bersellini è uno di questi. Di lui i tifosi ricordano certo lo scudetto vinto nel 1980, ma le parole su di lui gireranno quasi sempre verso altri lidi. La semplicità del personaggio, il suo carattere, i suoi valori e soprattutto l’affetto e la riconoscenza degli interisti verso di lui. Uno scudetto resta negli anni e nel palmares ma la gratitudine è merce rara nel mondo del calcio. Bersellini è riuscito a mettere insieme tutte queste cose nella sua valigia nerazzurra.
Era un Sergente di ferro, le regole, la disciplina, l’ordine delle cose venivano avanti a tutto, ma quando parlava della squadra a casa con la moglie li chiamava “i miei ragazzi”. La figlia racconta che papà Eugenio rimase in ritiro con la squadra anche il giorno della sua prima Comunione. La Pinetina era distante meno di un chilometro dalla chiesa dove si teneva la celebrazione ma lui era il Sergente di ferro, mica uno qualsiasi.
Era talmente diverso dagli altri che firmava contratti di un solo anno. Non voleva legami, voleva sentirsi libero e lasciare libera la società di scegliere. Era un atipico anche rispetto ai suoi colleghi di allora, quelli di oggi gli riderebbero dietro.
Il Tiger, lo chiamavano il Beck e Spillo Altobelli, e non sbagliavano. Anche durante le amichevoli di fine stagione, azzannava come a inizio stagione. Correre e pedalare, anche sotto il sole che logorava gli allenamenti era il suo credo, poi un brodino, un pezzo di pollo per tutti e via.
I suoi ritiri erano leggendari. Iniziavano il venerdì, quando era settimana di coppa finivano il giovedì successivo. Quando gli spiriti bollivano un po’ toccava sempre all’anziano di turno, di solito Bini, andare ad implorare qualche ora di libertà. Che il mister regolarmente rifiutava.
Disciplina e valori, prima di tutto per sé stesso da portare come esempio per i suoi ragazzi. Nei ritiri correva insieme a loro, condivideva i loro sforzi nei boschi e sulle piste. Giampiero Marini ricordava di una seduta di allenamento massacrante durante un ritiro in montagna. Una corsa nei boschi particolarmente dura, i suoi piedi erano una piaga, voleva desistere. Vide davanti a sé Bersellini, con le scarpe tagliate dai chilometri ed i calzini bianchi diventati rossi, imbrattati di sangue. Come fare a lamentarsi con uno così?
Pretendeva il massimo da tutti perché prima di tutto lo chiedeva a sé stesso. E senza distinzioni tra campioni affermati e ragazzi arrivati dalla Primavera. Facchetti ricordava gli addominali cui lo sottopose il Sergente all’inizio del suo ultimo anno, duri al punto da convincerlo a chiedergli se aveva intenzione di fargli finire la stagione o meno. Giacinto Facchetti, non Ambu o Occhipinti.
Durante una di queste corse in montagna, scendendo, il mister si imbattè in uno sperduto convento di suore. Una sosta, due parole scambiate, la consapevolezza che a quelle religiose mancava praticamente tutto. Tornato in paese, prima di rientrare in albergo con la squadra e lo staff, in un negozio di articoli sportivi comprò scarpe e tute e le fece recapitare al convento. Non ne fece parola con nessuno, la famiglia scoprì l’episodio solo molto tempo dopo, per una lettera di ringraziamento inviata per Natale dalle suore.
Due milioni al mese. Non di euro, di lire, questo guadagnava il Sergente Bersellini, Campione d’Italia e due Coppe Italia con l’Inter. L’avidità odierna neanche lo sfiorava, era roso dalla passione per il calcio non per il danaro. Uno zero in più sul conto corrente – era solito ripetere – contava meno della sua immagine pulita di uomo dedito solo al suo lavoro ed alla sua famiglia che amava fino al punto di fare testamento, per una strana ma umana paura, prima di partire per una tournee estiva in Cina.
E per quello stipendio non lavorava solo in campo. Confessava di fare spesso anche gli extra, insieme ad altri dirigenti, soprattutto di notte per controllare che non ci fossero fughe dall’albergo della squadra.
Non era un papà buono, il suo caratteraccio lo ha sempre rivendicato con orgoglio. Aveva litigato più di una volta negli spogliatoi ma tutto finiva lì, senza ritorsioni verso chi se la prendeva con lui. Gli andava pure bene che gli togliessero il saluto, purchè in campo facessero il loro dovere fino in fondo. Per conferme chiedere a Evaristo Beccalossi.
Bersellini era uomo di valori sconosciuti oggi, la sua modestia, la sua umanità e la sua concretezza sono rimaste scolpite nei ricordi di chi ha lavorato con lui, di tutti i “suoi ragazzi”. Quando Mozzini mise dentro la rete di Tancredi il gol scudetto del 1980 le sue prime parole dopo una coppa di spumante furono “da domani si ricomincia…il merito dello scudetto è della società, io ho solo una piccola parte di merito… una grande gioia che ti fa pensare a qualcuno come per fargli vivere accanto a te questo meraviglioso istante. Anche a me è venuta in mente una persona, ma è una persona che appartiene a Eugenio Bersellini uomo e non a Eugenio Bersellini allenatore dì calcio. E’ per questo che non ne faccio il nome, che questa emozione la tengo esclusivamente per me”. ”.
Dopo quello scudetto, per tener fede ad un voto fatto nei mesi precedenti, Bersellini andò a piedi al Santuario della Madonna a Fontanellato. 111 chilometri a piedi in 18 ore di cammino, con una macchina al seguito per controllare che tutto filasse liscio e per i viveri, la gran parte dei quali fu divisa con i tifosi felici che lo incontravano sul tragitto. Perché allora il calcio era anche questo. I giovani che oggi crescono a selfie, social e diavolerie varie sono sfortunati. Non hanno idea di quanto fosse bello il calcio in quella dimensione, di quanto potrebbe esserlo oggi se solo il mondo del pallone fosse capace di recuperare qualcosa di Eugenio Bersellini.
PS: alcuni dei fatti riportati sono descritti da Spillo Altobelli, Carlo Muraro, Evaristo Beccalossi e Beppe Baresi in un libro scritto ad otto mani , “L’Inter ha le ali”. Quattro dei “suoi ragazzi” che hanno regalato a Bersellini alcune delle pagine più belle della sua carriera. Quattro nerazzurri da ringraziare, anche per queste testimonianze di un’epoca lontana e meravigliosa.