Marroni, palle, attributi, chiamateli come volete, parlatene quanto volete ma arriverete sempre secondi dietro a Diego Pablo Simeone. Il Cholo ha i due penduli caratteri distintivi del maschilismo non solo dove per natura devono risiedere. Lui li porta nel Dna, in testa, nelle parole, in ogni momento importante della sua vita sportiva e non.
L’esultanza rimasta memorabile dopo il primo gol del suo Atletico alla Juventus nello scorso febbraio fu intesa come uno sberleffo discutibile ai bianconeri, mentre invece il titolo di quel fotogramma doveva essere “questo sono io”. Quel gesto scandalizzò la muta inferocita dei giornalisti italici, che dettero fiato alle trombe della vergogna non tanto per la sua sfrontatezza quanto perché da sempre avvezzi a vedere quel “tocco di palla” metaforicamente rivolto dagli juventini agli avversari e mai il contrario. Un delitto di lesa maestà che poteva essere teorizzato solo da chi Simeone non lo conosce.
Perché quello che lui ha lo pretende anche da suoi giocatori, come testimoniò dopo che i Colchoneros fecero fuori il Chelsea nella semifinale Champions del 2014, elogiandoli con le parole più belle che potessero uscire dai suoi pensieri: “vorrei ringraziare pubblicamente tutte le mamme dei giocatori per aver donato loro due palle così”.
Patrizio Romeo, su Rolling Stones del 12 marzo scorso, ha fatto forse il miglior ritratto del Cholo, asserendo l’estrema difficoltà di conoscerlo fino in fondo “E non lo capirete sicuramente voi, che vi svegliate, copulate – se va bene – prendete il caffè, fate la colazione bio, andate a correre oppure in palestra, fate la doccia, poi vi mettete i calzini giusti, le Vans, i pantaloni giusti, la felpa giusta, … e dopo una giornata di Pc e mobile andate a fare l’aperitivo giusto, guardate la serie giusta e poi andate a letto, dormite e ricominciate e non rischiate mai niente…. Il problema non è Simeone. Il problema siete voi, siamo noi. Che non saremo mai pronti al martirio professionale e sentimentale come è pronto lui…un mostro, un indemoniato,un guerriero, un condottiero, un capobanda, una rockstar fatta giocatore prima e allenatore poi. Cuore e coraggio. Corazón e coraje.”
“Amico mio, la vita è cambiata. Adesso sono ricco” disse Diego Pablo Simeone ad Antonio Scuglia, giornalista de Il Tirreno, poco dopo essere arrivato a Pisa all’inizio degli anni ’90. Una bella rivincita per chi si era visto affibbiare il soprannome del Cholo richiamando l’antico termine azteco “Xoloitzcuintli” (meticcio, incrocio di razze.). C’era una piccola bugia in quelle parole di Diego. Contrariamente a tanti altri esempi, la sua vita era trascorsa nell’agiatezza del quartiere più bello di Buenos Aires, assicuratagli da un papà dirigente di una importante azienda. Benestante ma furbo come i ragazzi di strada. El Fortin era lo stadio del Velez, Diego aveva 11 anni faceva il raccattapalle. Il primo cartellino rosso della carriera lo rimediò lì. “Si giocava contro il Boca Juniors, ad un certo punto il portiere, el Loco Gatti, era distratto. Io lanciai un pallone qualche metro più avanti, mentre Mario Vanemerack arrivava di gran carriera. Alla fine c’erano due palloni in campo e quasi facemmo gol”. L’arbitro vide tutto e lo cacciò dal campo.
Al Velez “il meticcio” doveva più che altro difendere la propria porta dagli assalti avversari. Esordì giovanissimo, in tre anni fece in fece in tempo a diventare il soggetto più carismatico del gruppo, il punto di riferimento della squadra, e a metterla dentro 14 volte. In Argentina la crisi economica mordeva i fianchi a tutti, sportivi compresi. Chi capì al volo le opportunità che si aprivano fu quel genio incompreso di Romeo Anconetani, Presidente del Pisa. Mercato estivo 1990, il gong di fine operazioni stava per suonare , nella città della torre pendente si smoccolava come solo i toscani sanno fare per completare la rosa. Anconetani sfogliava un fax con una rosa di nomi, foto, caratteristiche di giocatori argentini. Marco Malvaldi, scrittore pisano autore dei Delitti del BarLume, ricorda così quei minuti: “Romeo, dopo aver esaminato il fax, disse con piglio deciso: «Quetto qui e quetto qua. Soprattutto quetto qua. Mi garba, ha la faccia decisa». «Quetto qui» e «quetto qua» erano José Antonio Chamot e soprattutto Diego Pablo Simeone”.
In terra toscana i due erano inseparabili, arrivavano all’allenamento 40 minuti prima del resto del gruppo e quando tutti salutavano loro restavano a fare addominali e flessioni. Il Cholo non scherzava nemmeno in allenamento, più di una volta qualche compagno chiese al mister di calmare tackle e bollenti spiriti del giovane argentino. Arrivò in quei mesi anche la maglia dell’albiceleste, una delle prime partite lo vide impegnato contro l’Inghilterra. Al rientro in Italia aveva una gamba completamente annerita dagli ematomi. Quando il giornalista gli consigliò di farsi vedere da un medico, il Cholo non battè ciglio: “ ma sei scemo? Il presidente già non voleva che andassi, figurati se gli dico che sono infortunato”.
A Pisa restò per due anni, benvoluto e coccolato da tutti, dai vicini del Borgo in cui abitava, al prete che quasi ogni domenica lo vedeva a messa. E quando il papà andava a trovarlo si trovava a giocare a calcio pure su lui, sui campi di periferia con tifosi e giornalisti. Nel 92 la retrocessione in B costrinse il Pisa a vendere uno dei suoi gioielli. Larsen era diventato campione d’Europa con la Danimarca ripescata dopo l’esclusione della Jugoslavia, aveva pure segnato 3 reti nel torneo. Anconetani scelse di trattenere il danese e fece partire Simeone, destinazione Siviglia, poi all’Atletico, dove si consacrò tra i grandi e dove nacque un amore vivo più che mai, fotografato da una delle massime del Cholismo: “da giocatore non scambiavo la maglia dell'Atletico, dovevano darmene due, la mia valeva di più”.
All’Inter Diego arriva nel 1997. C’è Gigi Simoni in panchina, è l’Inter di Ronaldo, Recoba, Moriero e…della magica coppia Iuliano – Ceccarini. Dopo qualche incertezza iniziale, dovuta anche ad una posizione da trequartista lontana dalla sua indole, quando torna nel proprio recinto di centrocampo Simeone dà spettacolo, San Siro stravede per lui, il Cholo ricambia domenica dopo domenica ma con una domenica su tutte, quella del derby nel marzo del 1998, un 3 a 0 firmato dalla sua doppietta e dall’esterno in acrobazia di Ronaldo.
Quell’Inter era un crogiuolo di prime donne che Simoni seppe assemblare in maniera straordinaria mettendo proprio Simeone al centro di tutto. Gianluca Pagliuca lo ricorda così: “Era uno che si faceva rispettare da tutti, era colui che organizzava gli incontri per fare gruppo insieme alla squadra. E se in allenamento vedeva che qualcuno non faceva le cose per bene o non dava tutto, andava a rimproverarlo a muso duro: per questo ha litigato due volte con Ronaldo e Gigi Simoni gli diede il ruolo di leader della squadra. Praticamente avevamo due capitani e lui era quello senza fascia, un allenatore in campo. E poi parlava sempre di calcio, 24 ore al giorno; così lo prendevamo di mira, al punto che certe volte gli chiedevamo di smetterla chiedendogli di parlare di donne…
Leader in campo ma studiava già la panchine. Simoni racconta che gli faceva vedere un libro nel quale a volte scriveva le sue sensazioni, le sue esperienze con tutti gli allenatori che aveva avuto proprio per la sua intenzione di allenare, una volta appese le scarpette al chiodo.
La coppa Uefa conquistata a Parigi non basterà ad alleviare il peso della madre di tutte le ingiustizie. L’anno dopo Massimo Moratti compie l'errore più grande della sua gestione affidando la panchina nerazzurra a Marcello Lippi. Come nel gioco del domino arriva lui e Beppe Bergomi appende le scarpe al chiodo, Pagliuca va alla Samp, il Cholo alla Lazio.
Voci indiscrete parlano di un rapporto tempestoso tra Simeone e l’ex allenatore della Juventus, altre raccontano che anche Ronnie ci abbia messo lo zampino, nell’ambito di un rapporto tra brasiliani e argentini mai quieto. In una intervista di qualche settimana fa Zè Elias ha raccontato il primo screzio tra i due, durante una riunione di spogliatoio per discutere divisione dei premi. Ronnie era il leader indiscusso, “i premi sono uguali per tutti” sentenziò. Teoria non apprezzata da Simeone che alzò la mano e reclamo i premi solo per chi giocava e che lavoravano. Ronaldo chiuse perentoriamente la discussione: “i premi saranno così perché tutti lavorano qui, tutti si allenano e l’allenatore alla fine sceglierà”.
Ma è ancora Gianluca Pagliuca a raccontare a Matteo Fantozzi quello che successe veramente. Tutto nasce dalla maledetta Juventus Inter del 1998, quella del rigore di Ceccarini per intendersi. ““A fine partita io, Simeone e Beppe Bergomi abbiano avuto un duro screzio con Marcello Lippi. Quando poi lui è arrivato sulla panchina dell'Inter, guarda caso siamo stati trombati: gli unici a non essere riconfermati”.
Andò alla Lazio, come parziale contropartita di Bobo Vieri. A Roma vinse uno scudetto,3 coppe e, a quanto si dice, un incontro molto, troppo ravvicinato con un altro caratterino niente male, Fernando Couto.
Palle enormi, rapporto con Ronaldo scoppiettante, ma quando nel 2000 all’Olimpico il ginocchio di Ronnie fece ancora crack, Diego era in campo, sull’altra sponda. Fu tra i primi a vedere, a capire il dramma, a imprecare contro la “suerte”. Non aveva le mani tra i capelli ma chi gli era vicino racconta di aver visto i suoi occhi luccicare. Nell’autunno del 2001,il crociato se lo ruppe lui, la mamma dall’Argentina gli consigliava di mangiare cartilagini di zampe maiale, antico rimedio indios. Erano schifose ma miracolose, 6 mesi dopo, Diego era in campo per segnare il gol che non avrebbe mai voluto realizzare (parole sue) quello del 3 a 2 nel dramma nerazzurro del 5 maggio 2002. “Per me fu una tragedia, dopo il gol volevo sparire dal campo ma ero un professionista…”
Come quando era in campo,oggi il Cholo sta in panchina come sta nella vita, sempre in pressing, sempre in movimento, anche nei rapporti con il prossimo. Quelli con l’altra metà del cielo sono una vera e propria metafora della sua inquietudine. Nello scorso settembre, in Toscana, ha portato all’altare Carla Pereyra, quasi 20 anni meno di lui, accompagnato dai due bimbi avuti dalla seconda moglie. Con la prima, Carolina Baldini, una storia di 20 anni e tre figli tra cui il Cholito Giovanni. Nel mezzo una moltitudine di indiscrezioni che gli hanno affibbiato storie con donne bellissime, che lui ha sempre negato, forse più per signorilità che per amore della verità. La Gazzetta di qualche anno fa parlava di Rocio Marengo, star di una edizione Ballando sotto le stelle, e di altre 2 o 3 bellezze che dimostrano quanto sia falso il detto fortunato al gioco sfortunato in amore.
Ma non ci sono solo donne, nel calcio contano soprattutto quelli con le “huevos” e tra loro quello che Simeone ha trovato con gli attributi più grandi è il “Mono” German Burgos. Con lui non ci sono tradimenti, non ci sono corna, il sodalizio nacque a Catania nel 2011 e da allora niente e nessuno è mai riuscito a separarli, né sconfitte, né polemiche. Burgos è il numero uno dei numeri due anche perché rasenta la sua maniacalità calcistica rasenta la follia, fino al punto di mandare emissari a misurare i campi che avrebbero ospitate le trasferte delle sue squadre. Simeone e Burgos non parlano spesso, non ne hanno bisogno, la simbiosi è tale che cenni e sguardi bastano e avanzano come linguaggio tra di loro. Se Simeone veste spesso total black come un gangster anni 40, Burgos non ha il minimo riguardo per l’effimero, lui guarda al sodo, come quando minacciò di staccare la testa a Mourinho.
Simeone ha detto e ripetuto che un giorno allenerà l’Inter. Che sia una semplice previsione o la passione per il nerazzurro non è dato sapere. Magari sotto quella scorza di guerriero indomito adornata non per caso dal taglio di capelli stile apache, si cela un lato sentimentale sconosciuto, un rimorso che si porta dentro da quella soleggiata domenica di maggio 2002. Per restituire all’Inter e alla sua gente qualcosa, un indennizzo pur parziale per una delle beffe più grandi del calcio. “Non vincono sempre i buoni, vince chi sa lottare” recita una delle massime del Cholismo. Anche quella domenica Simeone seppe lottare, come sempre. L’Inter no.