Di affari sbagliati sono piene le pagine del calcio mercato. Uno di quelli rimasti famosi lo fece il Bologna. Nell’estate del 1988 la dirigenza rossoblu ebbe in mano due ragazzi cileni, uno già affermato in sudamerica, Hugo Rubio , l’altro ancora semisconosciuto. La scelta cadde sul primo, ovviamente. Il secondo andò in Svizzera, al San Gallo . Da quelle parti ancora cercano uno come Ivan Zamorano, 34 gol in 56 partite, prima di vederlo volare via, in alto come solo lui sapeva fare.
Non era ricco, non era bello, non era alto, sotto le Ande dove era nato lo chiamavano “el piojo” il pidocchio, per la sua capacità innata di saltare da un posto all’altro. Mai nomignolo fu più miope.
Vivere in Cile in quegli anni non era semplice. Prima di quello del 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle di New York, la storia aveva cerchiato di rosso un altro 11 settembre, quello del 1973, quando il palazzo del potere di Santiago del Cile, la Moneda, fu presa d’assalto dal golpe dei militari comandati da Pinochet. Il presidente cileno Allende si suicidò piuttosto che consegnare il paese nelle mani dei golpisti che da lì a poche settimane avviarono una delle repressioni più sanguinose che lo storia ricordi. Il calcio, come sempre ci va di mezzo suo malgrado, l’Estadio Nacional di Santiago era diventato un campo di concentramento, di torture, di esecuzioni sommarie. Naturale che crescere in questo clima faccia della rabbia la compagna di viaggio di tanti.
Ad un “pidocchio” cresciuto così niente faceva paura e niente sarebbe venuto come dono dal cielo, doveva conquistarsi tutto con il coltello tra i denti. Se ne accorsero qualche tempo dopo a Madrid, come ha raccontato Bam Bam in una intervista: “Durante il primo allenamento al Real Madrid, dopo che Jorge Valdano mi disse che avevo poche possibilità di giocare perché ero il quinto straniero ed ero appena arrivato, stavamo giocando una partitella; io stavo correndo come un selvaggio da una parte all’altra: era il mio modo di allenarmi. Poi Valdano entrò a giocare. Dopo pochi istanti gli arrivò una palla tesa, ci andai troppo forte, convinto di anticiparlo, ma non riuscii a frenarmi. Lo presi in pieno, facendolo sollevare in aria e cadere pesantemente. Si bloccarono tutti. Valdano si rialzò e mi disse: Ti alleni sempre così, o soltanto quando odi il tuo allenatore?”
Ivan era figlio della working class cilena, gente modesta ma fiera. Papà Luis e mamma Nelly sbarcavano il lunario alla bell’e meglio nella comunità di Maipù, una delle più povere di Santiago. Non sempre c’era lavoro, non sempre c’erano soldi a sufficienza, quello che non mancava mai era il pallone. Come succede spesso, più le difficoltà azzannano la vita delle persone maggiore diventa il fascino della sfera di cuoio. Colocolo, “il gatto della montagna” era un grande condottiero Mapuche, simbolo del coraggio andino e della resistenza contro l’invasore spagnolo. Il Colo Colo dunque non poteva che essere la squadra del popolo, quella per cui papà Zamorano stravedeva. Morirà quando Ivan aveva 14 anni, il suo più grande sogno era quello di vedere il suo “pidocchio” giocare con quella maglia e con quella segnare. Bam Bam crescerà con quel sogno del padre marchiato a fuoco sulla pelle. Lo realizzerà dopo aver lasciato l’Inter e dopo due anni nel Club America di Città del Messico. Per l’ultima stagione della sua carriera Ivan tornò a casa sua. Suo padre da lassù esultò 1000 volte e poi altre 8, tante quanti i gol del suo “pidocchio” a trascinare la sua squadra fino alla finalissima.
Incitato dalla mamma, Ivan viveva il calcio come l’unica possibilità per emergere. Lo faceva a modo suo, saltando a più non posso. Nel suo salotto c’era un lampadario, tutti i giorni, tornando da scuola, cercava di sfiorarlo con la testa, fino a quando ci riuscì. La felicità durò poco, appena 24 ore, il giorno dopo non fu capace di ripetere l’impresa. La mamma aveva alzato il lampadario di qualche centimetro per spingerlo a non accontentarsi, ad elevarsi su tutti, contro tutti.
Il fisico non era dalla sua parte, Ivan era basso, cresceva poco ma sembrava avere le molle sotto i piedi. Toccava terra e schizzava di nuovo in alto, proprio come i pidocchi ma sembrava troppo poco per costruirci sopra una carriera. Nel 1985, il Deportes Cobresal decise di dare una chanche a quel ragazzo, all’epoca 18enne. Lo mandò a farsi le ossa al Trasandino, in seconda divisione, per poco a dire la verità. 27 gol in 29 partite convinsero la dirigenza del Cobresal a riportarlo subito a casa, scelta azzeccatissima visto che 12 mesi dopo vinse la Coppa del Cile anche grazie ai suoi 9 gol. I suoi tifosi lo chiamano “Bam Bam”, come il figlio di di Barney e Betty dei Flinstones, come lui piccolo e pericoloso allo stesso tempo. Il primo ricordo dell’Ivan di quei tempi viene da Manuel Pellegrini ex allenatore di City e Real: “Giocavamo una partita di Coppa del Cile. Io giocavo difensore nell’Universidad de Chile. Contro di noi una squadra di Seconda Divisione, il Cobreandino. Su un tiro da fuori il nostro portiere respinse la conclusione. Io saltai per allontanare il pallone di testa quando dietro di me arrivò un ragazzino di 17 anni che saltò mezzo metro più in alto di me e di testa mandò il pallone in rete. Quello stesso giorno decisi che era ora di chiudere con il calcio…Però se avessi saputo cosa sarebbe diventato Zamorano avrei tranquillamente giocato un paio di anni in più !”.
Improvvisamente il Cile gli diventò stretto, l’Eldorado del calcio era l’Europa, Ivan partì con la mamma. Che ci faceva un cileno in Svizzera visto che il Bologna non l’aveva voluto? Ci fa 34 gol in due stagioni, ci vince il titolo di capocannoniere con 23 centri, ci costruisce la sua autostrada per il successo. Non arrivò subito il top club a prenderlo, il passo intermedio si chiamò Siviglia dove si innamorarono subito del “piojo”, dei suoi stacchi che anticipavano sempre avversari alti e grossi come armadi. Anche in Andalusia Zamorano volava “stacca da terra e sta in cielo un’eternità, giusto il tempo per un bacio al padre che omaggia spesso con una rete da festeggiare appena i piedi ripiombano sul tappeto verde” ha scritto tempo fa Paolo Vigo. Accanto a lui giostrava Suker , sembravano nati per giocare l’uno accanto all’altro in una delle coppie d’attacco più forti dell’epoca.
E se in Spagna fai di queste cose è logico che il Real Madrid bussi alla tua porta. Accadde nel 1992, la notizia gli arrivò il giorno del matrimonio di sua sorella, lui dovette preparare i bagagli in silenzio per non turbare la felicità della sua famiglia. Abbiamo già visto che l’inizio con Valdano non fu dei migliori, ma ci mise poco a far cambiare idea a tutti. Il Real era si l’immagine estetica, quasi barocca del calcio ma a lui nessuno glielo aveva detto ed il suo gioco selvaggio a poco a poco scardinò ogni modello. Era un Real di transizione, non eravamo ancora all’epoca dei Galacticos, Butragueno stava finendo il suo ciclo, Hugo Sanchez ormai era un ricordo lontano. Se gli spagnoli avevano conquistato il suo Cile, Zamorano conquistò il cuore del Bernabeu, 26 gol in 34 presenze alla prima stagione, 28 in quella successiva, Pichichi della Liga, con una tripletta messa a segno con il Barca tutta di piede, quasi a voler umiliare i rivali. Vince un campionato, una Copa del Rey, una Supercoppa spagnola, la mette dentro 77 volte in 4 anni. Con la “camiseta blanca” il “pidocchio” diventa Ivan il Terribile, come il primo Zar russo.
Quei numeri Zamorano non li ripeterà più, ma neanche Massimo Moratti lo sapeva. Lo portò a Milano, i gol non fioccheranno come la neve sulle Ande ma il rapporto che nacque con i tifosi fu di quelli speciali. Ovvio, perché uno come lui non si arrende mai piace a prescindere. Piace perché cede la sua numero 9 al fenomeno Ronaldo che arriva l’anno dopo di lui, creando quella maglia unica, iconica, l’ 1+8 a ricordare a tutti che anche lui è un centravanti, il centravanti, quando la sfera viaggiava alta. Piace perché segna un gol diventato storico, il primo nella finale al Parco dei Principi di Parigi per la vittoria della Coppa Uefa contro la Lazio. E piace perché ogni domenica, nel suo mondo, doveva sfidare i limiti del coraggio per sé stesso e per la squadra. La gente nerazzurra lo percepiva a apprezzava. Così come capiva e godeva del suo modo di giocare generoso finche la palla era a terra dedito non solo a finalizzare ma ad aprire spazi per gente come Baggio, Recoba e Ronaldo, ma da dominatore unico appena si alzava a due metri e mezzo da terra.
Chiuderà con l’Inter dopo 4 stagioni, da idolo della curva e lasciando sul prato di San Siro una maglia perennemente sudata a fine gara. Chiuderà restando interista dentro, come uno di noi (chi non ci crede veda su You Tube il giorno della sua ultima a San Siro) fino a scoppiare in lacrime sul divano di casa sua vedendo Zanetti alzare la Champions del Triplete nel suo Bernabeu. Chiuderà solo per tener fede al sogno di suo padre: vederlo segnare con la maglia del Colo Colo. Quando a 36 anni appese le scarpette al chiodo, in Cile 14 milioni di persone avevano conosciuto e amato l’Inter grazie a lui, lo sportivo più popolare di sempre sotto le Ande.
“Bam Bam, Bam Bam, llegó caído del cielo Bam Bam. Y la galera gritaba su nombre, orgullo de Chile, el gran capitàn” (Bam Bam è caduto dal cielo e il popolo gridava il suo nome, orgoglio del Cile il grande capitano) : così la sua gente cantava per lui, tornato, diventato e rimasto icona di un paese intero. Oggi è il compleanno di Zamorano, compie 53 anni. Qua c’è un altro popolo che non ti ha dimenticato, sotto le tue nuvole di Milano. Da tutti i nerazzurri buena suerte Ivan.