Dimenticò una finale per andare a pescare, Recoba, una vita all’incrocio
A Miami Beach una famigliola pranza ad un noto ristorante. Il piccolo della tavolata si accorge che vicino a loro è seduto Marcelo, il terzino del Real Madrid. Il ragazzino va in estasi, vorrebbe avvicinare il campione ma il papà lo richiama all’ordine: “Jeremia stai buono, non infastidire i signori…” . Marcelo si accorge del fatto, si alza e va verso il padre del fanciullo. “Ciao scusami, non volevo disturbarti, sono un tuo grande ammiratore”. Jeremia resta di sasso, poi ripensa che lo stesso era accaduto con Luis Suarez, il compagno di Messi al Barca. “Com’è che tutti questi campioni vogliono la foto con papà? “ rimuginava il bimbo tra sé e sé. Va bene che anni fa era stato un calciatore, che dicevano segnasse reti bellissime, che per andare a pesca si era dimenticato una finale, ma pensava che fosse una storia inventata. Non c’era niente di inventato, il papà di Jeremia si chiama Alvaro Recoba.
Tutti siamo stati Recoba, lui un po’ di più. Non è successo a ognuno di noi di svegliarsi e dire “stamani non ho proprio voglia di andare a scuola…”? Solo che noi lo abbiamo detto a mamma, pronta a prenderci a ciabattate se da lì a 18 minuti non fossimo stati belli lindi, sorridenti e pronti per la colazione come nelle vecchie pubblicità del Mulino Bianco. Lui lo diceva a Massimo Moratti, papà amorevole e sempre pronto al perdono, che sarebbe stato pronto a vestirlo ed a portarlo a giocare nel giardino di casa sua anziché a San Siro.
Fin da piccolo Alvaro non ha combattuto con bulli, miseria, disgrazie, per sua grande fortuna. E neanche stopper o medianacci incarogniti sono riusciti a guadagnarsi la sua riprovazione. Il Chino ha avuto un solo grande avversario in vita sua: la fatica, quella di giocare, di allenarsi. Forse anche quella di vivere, attività da prendere con le molle e un po’ alla volta. La partita è ancora in corso, il risultato è tuttora in bilico ma dall’Uruguay non arrivano notizie che possano far pensare che Alvaro possa uscire sconfitto.
Tutti siamo stati un po’ Recoba, “il ragazzo è intelligente ma non si impegna” lo dicevano anche di noi a scuola, o no? A differenza nostra, Alvaro ha saputo farne un modo di essere, uno stile di vita. Se oggi i giocatori tendono ad essere perfetti, dei superman dalle doti meravigliose e irraggiungibili, lui era il classico “uno di noi”. A pensarci bene la sua pigrizia è arrivata fino all’eccesso di non scegliersi neanche un ruolo. Cos’era Recoba? Un 10? Un esterno? Una mezza punta? Non lo hanno capito neanche i suoi allenatori. Per noi che lo abbiamo amato come pochi altri, consapevolmente soggiogati dal fascino magnetico e sterile che lo circondava, resta il 10 nella sua forma più pura, più esaltante.
Ed il bello è che questa “virtù” non avuto bisogno di alimentarla, di esercitarla per rinforzarla mentre diventava adulto. Lui no, lui è nato così, un predestinato si direbbe oggi. In uno dei primi tornei disputato nelle giovanili del Danubio, la sua squadra era arrivata in finale, grazie ai suoi gol. Il giorno della finalissima Alvaro non c’è, non c’è proprio fisicamente. Si era dimenticato ed era andato a pescare. I suoi compagni alla fine del primo tempo erano sotto 3 a 0. Qualcuno ordinò di andare a cercarlo. Lo trovarono, la caricarono in auto, dove si cambiò trasformandosi come per magia da Sampei in Holly e Benji, facendo in tempo ad entrare nella ripresa, segnare 5 gol e vincere il torneo.
Quel giorno a vederlo c’era la persona che gli avrebbe cambiato la vita, in tutti i sensi. Rafa Perrone negli anni ’70 era una delle stelle del Danubio. Anche lui un era talento inespresso. Aveva lasciato l’Uruguay cullando un sogno, aveva firmato con l’Olympiakos per sette anni, aveva ricevuto anche la cittadinanza greca. Tornò in Uruguay per le vacanze, ad Atene sono ancora a attenderlo. Troppa la nostalgia per la sua terra, i suoi affetti. “Mi denunciarono alla FIFA e dovetti smettere di giocare. Avevo ventisei anni. Vennero anche dei tipi a cercarmi da Atene, gli dissi: Sì, sì, torno. Mi hanno mandato i biglietti aerei, ma non sono mai tornato”. Comprò due taxi per tirare avanti la baracca ma l’occhio per il calcio era quello dei grandi. Diventerà il più grande scopritori di talenti dell’Uruguay, Fabián Carini, Marcelo Zalayeta, Ernesto Chevantón sono figli del suo fiuto.
Ma non solo questo.
Tornando a Recoba, è proprio Perrone a ricordare quei tempi .”Era indeciso se andare al Defensor o al Danubio. Il padre di Álvaro mi chiese se in cambio del cartellino del figlio avessimo casomai potuto installare sul campo del Celiar, la sua squadra di quartiere, un impianto di illuminazione. E così è stato… C’è stato un periodo, però, in cui voleva smettere perché viveva lontano e venire ogni volta ai campi d’allenamento era faticoso oltre che costoso, e gli pesava. Allora chiesi al padre se gli fosse dispiaciuto lasciarlo vivere con me per un periodo, e lui lo lasciò andare. Ci è rimasto un anno e un po’”. Quanto basta per conoscere la figlia di Perrone, Lorena, 10 anni o giù di li a quell’epoca. La casa del mister non era un albergo a 5 stelle, quando arriva Alvaro, lei deve lasciargli il suo letto e dormire dalla nonna. Lorena ha raccontato che dopo aver lasciato casa Perrone, un giorno Alvaro si presentò da suo padre. “Aveva bisogno di una giacca per partecipare alla festa della figlia del suo procuratore, Paco Casal. Io stavo uscendo e lui mi chiede “dove vai?”. Fu il primo accenno di attenzione nei miei confronti, gli risposi “a te cosa importa? Devo dirlo ai miei dove vado, mica a te”.
Da quel giorno Alvaro riprese a frequentare casa Perrone con una certa insistenza, con la scusa di mangiare le cotolette della madre. “ Poi suo padre ha avuto un' operazione e io gli ho dato una lettera, per dirgli che gli ero vicina: finivo scrivendo “ti voglio bene”, e lui si è dato una mossa. La volta dopo entrò in casa e mi chiese sottovoce “vuoi uscire con me, oggi? Ti porto a casa mia: tranquilla, non siamo soli, mia madre fa la pizza”. Quel pomeriggio mi è venuto a prendere in macchina e non ha detto mezza parola fino a casa sua, poi si è seduto accanto a me e davanti a tutti mi ha sussurrato all' orecchio se volevo essere la sua fidanzata, proprio come si faceva una volta. Non ho risposto nulla, neanche la seconda volta che me l' ha chiesto. Ma poi, quando mi ha riaccompagnata, mi ha dato un bacio. Era il 26 settembre 1996” . 9 mesi dopo i ragazzi si sposarono in comune, due anni dopo in chiesa. A luglio del 2000 diventano mamma e papà di Jeremia.
La geografia calcistica di Montevideo è divisa per “barrios”, in quello di “Curva de Maronas” si tifa Danubio o Penarol, tertium non datur, da quelle parti uno che tiene al Nacional può stare tranquillo come un gatto in tangenziale. Le scritte sui muri sono equamente suddivise tra i due club. Tutte fuorchè una: “Grazie di tutto Chino”. Alvaro era nato lì, il quartiere realizzò subito che quel ragazzino dai tratti vagamente orientali era qualcosa di mai visto. Il suo sinistro sprigionava poesia, la gente si fermava a guardarlo dalle auto in fila, salvo ripartire, dopo la clacsonata di quello dietro, con la sensazione di aver visto un’apparizione. Merito anche del papà, che lo teneva ore ad esercitare il mancino con la palla medica per potenziare il tiro in porta. Il destro gli serviva per salire le scale di casa. La prima maglia che veste è quella del Danubio, capisce subito che allenarsi è faticoso. e lo dice senza mai nascondersi… “Non è che odi allenarmi, diciamo che non mi piace particolarmente. È come quando andavo al liceo, ci sono materie che ti piace studiare di più ed altre meno. Ecco, l’allenamento è la parte che mi piace meno del mio lavoro, ma devo pur farlo e lo faccio.”
Alla Pinetina è rimasta la leggenda di un tavolino sistemato appena fuori il campo d’allenamento. Alvaro lo aveva adocchiato. Un pomeriggio in cui la voglia di lavorare latitava più di sempre e la nebbia lo permetteva, raccontano che Recoba fosse uscito dal gruppo senza farsi vedere, si sia accomodato a quel tavolo, si sia fumato una sigaretta protetto dalla foschia prima di riprendere a corricchiare.
Nella seconda stagione al Danubio segna 14 gol in 20 partite, spesso partendo dalla panca. Chi lo vede giocare capisce subito che non è normale, Penarol e Nacional si stavano scannando per averlo. L’affare con i gialloneri sembrava fatto un intoppo fa saltare tutto. Il futuro di Alvaro si chiama Nacional, l’odiatissimo Nacional. Vince due titoli nel 96 e 97. In sudamerica si sparge la voce che ok, Dio tifa Boca, ma sembra che ogni tanto faccia un salto a Montevideo da quando c’è lui. Con la maglia dei “tricolores” Recoba segna contro i Wanderers quello che, anche a suo dire, è il gol più bello della sua carriera. Ignazio Campanella lo ha ricostruito in questo modo: “Spiegare a parole ciò che è stata una sequenza di movenze tanto elegante quanto dirompente è cosa ardua, ma più o meno andò così: Recoba parte dalla posizione di terzino sinistro nella propria metà di campo e corre in diagonale col pallone quasi sempre incollato al piede saltando quattro o cinque giocatori. Evitato l’intervento di tre difensori, che a dirla tutta oppongono ben poca resistenza, ed elusa l’uscita bassa del portiere, accomoda la palla in rete. Ovviamente di sinistro. È uno di quei gol che ti capita, se ti capita, di segnare una sola volta nella vita, forse due se sei un fuoriclasse e pure fortunato…”. Alvaro, invece, ha vent’anni ed un futuro luminosissimo davanti, o almeno così ci si aspetta.”
“ Aspettare” è un altro concetto che Recoba ha instillato a piene mani nelle sacche dell’animo che contengono la pazienza di allenatori e tifosi. Come diceva la pubblicità, se l’attesa del piacere è essa stessa piacere, il Chino ha fatto godere i suoi ammiratori, quegli interisti in maniera particolare, come nessun altro mai.
Nessuno aspettava Recoba il 31 agosto del 1997, prima di campionato contro il Brescia, tutti gli occhi di San Siro erano puntati sul fenomeno Ronaldo. Erano arrivati insieme da poche settimane, Ronnie strappato al Barcellona con uno cheque di Moratti da 50 miliardi. Lo stesso Moratti che, nel frattempo, si era divorato montagne di VHS del Nacional, si era innamorato di quel ragazzo, del suo sinistro magico, dei suoi gol olimpici (quelli da calcio d’angolo), delle sue punizioni telecomandate al sette delle porte avversarie. Altri 7 miliardi e il Chino arrivò a Milano.
Chi ha meno di 30/35 anni e non crede nel colpo di fulmine può tranquillamente saltare le prossime righe. Chi c’era, chi era attaccato alla radio, i pochi che avevano Telepiù (la Sky dell’epoca) ricordano ancora i moccoli per il gol di Hubner a metà ripresa su assist di un altro ragazzino dell’epoca, tale Andrea Pirlo. Ronaldo no, non segnava, giochicchiava. Poco prima Gigi Simoni aveva mandato in campo anche Recoba , quasi dispiaciuto di aver dovuto lasciare la panchina e togliersi la tuta. A 10’ dalla fine Cauet gli allunga un pallone a più di 35 metri da Cervone, che fino a quel momento aveva parato anche gli spilli. Uno normale che riceve in quella zona si guarda intorno e ben che vada cerca il compagno in profondità. San Siro imparò in quel momento che Recoba non era normale, anche le telecamere fecero fatica a seguire quel sinistro sparato all’incrocio della porta bresciana.
Nei romanzi più belli il finale è sempre a sorpresa. Pochi istanti dopo un difensore delle rondinelle stende Recoba sulla trequarti. Si avvicina Ronaldo, che poco prima ha centrato la traversa su un tiro da fermo più ravvicinato. Recoba gli fa capire che non è il caso, fa quattro passi e spara un altro missile all’altro incrocio. Cervone resta basito, a San Siro è tsunami di entusiasmo, Pagliuca si fa tutto il campo per andare ad abbracciare quel ragazzino che esultando sembra dire “Salve San Siro, mi chiamo Alvaro Recoba” (la foto immortala proprio quel momento). Il vero fenomeno era lui? San Siro aveva ritrovato un mancino degno di Mariolino Corso? Tutto vero e tutto falso allo stesso tempo.
Da quella doppietta inattesa all’esaltazione dell’attesa il passo è breve. Tanto per capirsi, per vedere il suo terzo ed ultimo gol di quella prima stagione italiana bisogna attendere la fine di gennaio del 1998. Ma ne valeva la pena. Al Castellani di Empoli la palla stazionava a metà campo, 50 metri più o meno dalla porta difesa da Roccati che se ne stava tranquillo all’altezza del dischetto del rigore. La sua serenità svanì in un lampo quando la palla dopo un contrasto arrivò tra i piedi di Recoba. Satanasso di un uruguaiano, non ebbe neanche bisogno di alzare la testa, aveva il radar che guidò quel tiro da fermo, niente a che vedere con un pallonetto, un tracciante che centrò, guarda caso il sette alla sinistra della porta empolese. Come Maradona a Verona 12 anni prima, forse ancora più bello.
Sulle spalle di Recoba grava anche una responsabilità pesante e dolcissima, quella di aver esaltato il concetto di Pazza Inter con la rappresentazione scenica della follia. Non abbiamo i numeri ma siamo sicuri di non sbagliare dicendo che dopo la finale del Bernabeu del Triplete il momento più ricercato sui social dai tifosi nerazzurri in vena di nostalgie sia Scarpini che urla “nulla è impossibile per questa Inter, spettacolo al Meazza” dopo il gol del Chino alla Sampdoria nel 2005. Il 3 a 2 per l’Inter che al 42mo della ripresa era sotto 0-2, vittoria di poco conto per la classifica ma dal pathos immarcescibile.
Non una sola attesa, me decine di attese, più o meno lunghe, tra una magia e l’altra. E’ un patrimonio che sa far sognare, ma ad intermittenza, quando lo decide lui, quando il suo genio si sveglia dentro la lampada. Lampi straordinari intervallati da vuoti snervanti. La gente andava a San Siro rassegnata al dolce supplizio dell’attesa , sapendo che poteva finire in qualsiasi istante e allora meritava esserci in quel momento per dire “quel giorno c’ero anch’io quando Recoba…”.
Tra quei tifosi c’era anche la seconda persona che gli aveva cambiato la vita, Massimo Moratti. Lo aveva portato in Italia, lo aveva amato quanto se non più di Ronaldo perché lui era la sintesi perfetta del morattismo, neologismo che sintetizza la ricerca della bellezza con quella della follia. L’amore di una intera famiglia per l’estetismo dei mancini. A papà Angelo nessuno doveva toccare Mariolino Corso, “classe pura e carezze al pallone”. Il sinistro di Alvaro non l’accarezzava la palla, dal suo mancino uscivano saette luminose come la coda della stelle. Moratti lo avrebbe amato anche senza quella potenza , “gli sarebbe bastato guardarlo negli occhi e trovare un cenno d'intesa”… Secondo Giulio Peroni “si può anche ipotizzare che Massimo Moratti abbia visto in Recoba un sè stesso giovane, poco propenso al rispetto delle regole, attratto dal suo talento, dalla sua capacità di inseguire i sogni.. L'Inter come giocattolo e Recoba come compagno ideale di giochi…” Questo è stato il connubio Moratti-Recoba.
Il rinnovo di contratto più famoso di quei tempi è stato tratteggiato alla perfezione da Enzo Palladini nel suo “Dimmi chi era Recoba” . Paco Casal, l’agente del Chino, era il vero dominus del calcio uruguaiano, l’alter ego perfetto di Luciano Moggi qua da noi. A suo dire Moggi non avrebbe mai portato alla Juventus uno come Recoba, talento troppo poco gestibile ma se il suo amico Paco gli chiedeva una sceneggiata , perché tirarsi indietro? Nel mercato del calcio contano solo amicizie e convenienze, il piacere che mi fai oggi sarà restituito domani con gli interessi. Nel 2001 Recoba andava in scadenza di contratto, il DG della Juve finse un interessamento.. Moratti decise di chiudere ogni tentazione, mettendo in mano ad Alvaro 15 miliardi all’anno facendone così, per diversi anni , il giocatore più pagato al mondo. Il che non lo esentò dal partecipare nel ruolo di semplice comparsa alle tre date che ogni interista vorrebbe cancellare dal calendario dei ricordi, il 5 maggio 2002 e i due derby di Champions dell’anno successivo.
Nel 2007, poco prima di lasciare definitivamente l’Inter, Luis Figo gli si avvicinò: “se avessi avuto il tuo sinistro chissà cosa avrei potuto fare” gli disse in un orecchio. Figo, non l’ultimo scappato di casa! “Tra il 1997 e il 2007, per Alvaro Recoba doveva esserci un decennio pieno di coppe, palloni d’oro, gol pazzeschi. Ci sono solo gli ultimi“. Per il resto, c’è solo il rimpianto: quello è il senso delle parole di Figo.
Un rimpianto fatto anche di numeri, in 25 anni di carriera solo 7 volte ha superato le 20 presenze. Menefreghista? Superficiale? Per molti può essere questo il giudizio corretto ma Recoba invece non ha mai avuto paura di essere così, dimostrandolo dal primo giorno di notorietà fino ad oggi. Per quanto si sa, solo una volta ha avuto un momento di esitazione: “Se avessi avuto la testa di Zanetti, avrei decisamente potuto fare di meglio”, ma fu un dubbio che passò subito.
Il testimonial più credibile del Chino è la moglie Lorena, che già 20 anni fa lo raccontava così alla Gazzetta dello Sport.
“C'è poco da fare, lui è così, ha la testa fra le nuvole. A cosa pensa? Ah, questo me lo chiedo spesso anch' io». Al calcio sicuramente, «e da sempre, da quando adorava Maradona, Francescoli e anche Ruben Sosa…Quando non pensa al calcio è perché ne parla, sempre, con tutti, i compagni, il fratello, gli amici. Anche con me, perché in fondo vivo nel calcio da quando sono nata, mi piace andare allo stadio e quando vado sembro un' ultrà più che la moglie di un giocatore. Gli urlo cose irripetibili, insulti in spagnolo: mi sono vergognata a rivedere e risentire il film del derby che ha fatto con la videocamera mio cognato, seduto accanto a me… Non mi chiama praticamente mai Lorena, sempre “mi amor”, amore mio. E io lo stesso, sicuramente non Chino, perché non mi piace… Fra di noi parliamo in spagnolo, ma le cose più dolci ce le diciamo in italiano: sono più carine, suonano meglio. Mi scrive spesso: bigliettini o lettere brevi, dove capita, come quella che mi ha scritto dietro una delle foto a cui è più affezionato, l' esultanza dopo il gol più bello della sua carriera, da porta a porta scartando sei o sette avversari…La pigrizia? E' vero, non fa nulla, o comunque il meno possibile. E poi è la persona più disordinata che io conosca, un disordine esagerato. Si veste solo se gli preparo io quello che deve mettere, dalle scarpe al cappotto, esce quando è proprio necessario e per il minor tempo possibile, al cinema decide di andare molto raramente. In poche parole, ama stare in casa: play station non più, perché da un po' glielo impedisco, altrimenti andrebbe a letto chissà a che ora…E’ pigro, molto pigro: ci manca soltanto che debba anche alzarlo dal letto la mattina e poi vestirlo, e qualche volta mi è toccato farlo.Può stare a letto un numero di ore imprecisato…quando era e ancora oggi è solo, in Uruguay, alzarsi alle sei del pomeriggio diventa la regola, non l' eccezione… A lui piace mangiare molto, più che bene: non la pastasciutta, e tanto meno le verdure, semmai cotoletta e patate fritte, magari con un uovo sopra. Insomma tutte le schifezze possibili, di quelle che fanno ingrassare, anche perché da solo sa prepararsi al massimo due fette di pane, burro e marmellata, forse, dico forse, delle uova strapazzate. Certo, lo so già: quando smetterà di giocare diventerà una piccola palla. Ma a me va bene così, a me piace quando è un po' più cicciotto”.
Poteva finire normalmente la carriera di uno così? Anche gli Dei del calcio pensarono di no e gli regalarono l’ultima meraviglia, un “the end” riservato solo agli eletti. . Era tornato in Uruguay nel 2010, riavvolgendo il nastro della sua carriera. Un anno nel Danubio, poi dal 2011 nel suo Nacional. Nel novembre del 2014, a 38 anni, stava vincendo il suo ultimo campionato d’apertura. C’era da andare a staccare il biglietto nella tana del Penarol, vincendo davanti ai rivali, se possibile umiliandoli.
Al 93mo era 1 a 1. Quando l’arbitro fischiò la punizione per il Nacional sulla tre quarti avversaria mancò solo l’arcobaleno per permetter anche al cielo di festeggiare quel momento unico. Il Chino tirò la sua sassata all’incrocio dei pali. Un suo compagno di squadra, Pereiro, si tatuò il suo volto sul braccio, il presidente del Nacional propose di dedicargli una statua nel parco del centro di Montevideo.
Tra l’incrocio dei pali del Brescia e quello del Penarol c’è tutta la vita del Chino Recoba.