“Metterò una taglia su di te”
“C’è chi lo ama e chi lo odia, da parte mia posso solo dire che non mi siederò mai a mangiare al suo fianco”
“E’ un represso, una brutta persona, adesso che non gioca più è ancora così.”
Le prime parole sono di Billy Costacurta, la seconda frase è invece di Patrick Vieira, l’ultima di un suo ex compagno di squadra, Lucio.
Stiamo parlando di un tipo poco raccomandabile? Aiutino da casa? chiederebbe Gerry Scotti. Eccolo
“Voglio far vedere a tutti cosa ha fatto: mi ha dato un pugno nel sottopassaggio, ha visto tutto l’arbitro. Mi ha spaccato il labbro”
“ In giro c’è anche gente malvagia. E questa persone non le voglio sentir parlare…Ho sbagliato, chiedo perdono a tutti’. Ma a lui non posso. M
ai, mai… Sarebbe come disonorarmi… Preferisco morire”
Dopo queste parole di Bruno Cirillo e Zizou Zidane, si, accendiamo Marco Materazzi, senza paura di sbagliare.
Pochi come lui nella storia del calcio sono riusciti a mettere tutti i tifosi su due fronti, senza alcuna zona grigia, senza sfumature possibili, lo si odiava o lo si amava, tertium non datur. Marco è stato l’emblema di quella categoria di giocatori per i quali su un campo di calcio tutto è lecito per vincere, purchè finisca li. Questione di carattere, questione di palle, diciamo le cose come stanno.
Qualcuno ha scritto che Materazzi “ci ha costretti a confrontarci con il nostro lato più basso, quando abbiamo dovuto tifare per lui. Ci ha forzati a chiederci se sia più importante vincere e essere odiati, o uscire con dignità, fra gli applausi”. Una sorta si introspezione psicoanalitica degna di approfondimento da parte di Massimo Recalcati, al termine della quale emerge una risposta pilatesca.
“Ci ha costretti con le sue vittorie ad amarlo, girando la testa davanti agli sfottò e al biasimo del resto del mondo”. La risposta tipica di milioni di tifosi italiani che hanno insultato per anni Materazzi in tutti gli stadi d’Italia al grido di “figlio di puttana” ma saltando sui tavoli di casa e dei ristoranti al gol del pareggio contro la Francia o quando mise a segno il suo rigore. Una delle tante ipocrisie del calcio,
La classe operaia va in Paradiso, così potremmo definire il mondiale 2006 di Materazzi. Una delle foto più belle di quella spedizione resta quella di Dortmund, nella semifinale con la Germania. Al gol di Grosso, Marco non trova di meglio che chiamare a gran voce l’arbitro Archundia, inginocchiarsi ai suoi piedi e stringerlo in un abbraccio da cui il fischietto messicano confesserà di aver faticato a liberarsi. “Dai smettila togli queste braccia” diceva all’azzurro che pazzo di gioia non intendeva e stringeva sempre di più. In finale non si accontentò del gol che ne faceva il capocannoniere azzurro, voleva tirare l’ultimo rigore. Lippi non se lo filò neanche di striscio, “tiri il secondo, stop”. Battè, segnò e andò a ridere e piangere da solo attaccato ad una bandierina del corner, mentre compagni e francesi proseguivano la serie, mentre il quarto uomo continuava ad urlargli di tornare a centrocampo. Poi quell’orrendo copricapo a cilindro in testa per salutare e baciare la coppa e la perdita di ogni freno inibitorio negli spogliatoi. Solo un astemio come lui che beve tre birre una dietro l’altra poteva trovare il coraggio di annaffiare il Presidente della Repubblica Napolitano con la quarta birra sotto gli occhi terrorizzati di compagni, staff e dei ministri presenti alla festa.
Rude ma con le palle, questo è stato Materazzi, ma senza un filo di ipocrisia, consapevole di essere un buon giocatore ma che il talento vero stava da altre parti e che per emergere c’era solo da sudare sangue. Per questo non è lui che deve abbassare lo sguardo di fronte a qualsiasi pubblico.
E alla fine anche questi ipercritici non possono fare a meno di sbattere la testa sul carattere vero di Marco. Guerriero o martire poco importa, di sicuro uno che ci ha sempre messo la faccia, spesso per salvare anche quella degli altri. “Materazzi è il bullo che un giorno ti prende a schiaffi e quello dopo ti difende dal bullo di un’altra scuola, per attaccamento alla maglia” hanno scritto di lui. Il termine bullo fa sorridere ma il concetto si avvicina alla realtà. Per informazioni chiedere a Mario Balotelli. “Uno schiaffo e una scarpa in faccia gli sono arrivati; ma quando l'hanno operato, ed era in ospedale, c'ero io a mezzanotte a fargli compagnia e ad andare a prendergli le merendine alla macchinetta” ricordava Materazzi in una intervista su Premium di qualche tempo fa.
Avere le palle significa reagire in maniera positiva ad un papà allenatore di calcio che vedendo il figlio crescere più degli altri ragazzi gli consigliò di darsi al basket, che poteva offrirgli più soddisfazioni. Avere le palle significa anche non cercare scuse per sottrarsi alle frecciate più dure. Lui non lo ha mai fatto, anzi. Di fronte alle accuse ha accettato e rilanciato: “Ho commesso tante sciocchezze nella mia vita, le ho prese e le ho date e non mi sono mai lamentato. Su questo nessuno può dire niente. Io difensore falloso? Smetterò di giocare quando smetteranno di parlare di me e lo stesso vale parlando di atteggiamento in campo: finché parlano, lasciamoli parlare.”
L’elenco delle sciocchezze sarebbe lungo. Qualche espulsione, qualche “incontro ravvicinato” particolarmente caldo con le punte avversarie (Ibrahimovic su tutti). Ma la madre di tutte le minchiate resta la stecca in faccia rifilata a Cirillo negli spogliatoi di Inter Siena. Era il primo giorno della presidenza di Giacinto Facchetti. Uno sfottò dalla panchina di Materazzi nei confronti dell’avversario che lo ringraziò con il solito “figlio di puttana” unito alla promessa di aspettarlo dopo la gara. Il difensore del Siena il dopo gara lo passò nelle mani del medico a farsi curare il labbro spaccatogli da Matrix con una manata munita di un paio di anelli piuttosto robusti e davanti alle telecamere per denunciare il macellaio. Materazzi capì subito, Facchetti lo spedì davanti alle televisioni a chiedere scusa. Due mesi di squalifica, la pace con l’avversario davanti ai fotografi, 3 chili persi in pochi giorni per il senso di colpa ma anche per la motivazione del giudice sportivo: “mancanza di autocontrollo”.
La mamma e le altre 2 donne della sua vita offrono la fotografia compiuta del lato B di Materazzi, spesso sconosciuta. Se il campo parla di un guerriero sempre con il coltello tra i denti, la vita sua privata è quanto di più lontano da questa immagine. Il suo universo femminile contempla tre persone, senza possibilità di intromissioni di sorta. La mamma, persa dopo anni di malattia quando aveva 15 anni, età in cui ancora non sai se sei uomo o bambino. Nelle sue parole rivolte ai tifosi di ogni dove “offendete me ma non lei” c’è tutto il peso di quel dramma che lo ha accompagnato da Messina a Marsala, da Perugia a Carpi, da Liverpool a Milano. Fino a Berlino, quando le sue braccia sembrarono voler toccare il cielo per regalare a lei quel momento di gioia incontrollabile. Quella inzuccata del pareggio nella finale mondiale mangiando la pappa in capo a Vieira fu il suo regalo più bello, il suo modo di lavare con un solo gesto tutte le offese di chi da anni gli dava del figlio di puttana tutte le domeniche.
La seconda è Daniela in parte sua moglie, in parte la mamma che non ha avuto per troppo tempo. Quando si conobbero lei faceva cocktail al bar della discoteca della sua famiglia. Lui giocava nel Perugia, nella Primavera perché Galeone non voleva quello spaccamarroni in prima squadra. Nonostante questo, il suo atteggiamento era degno di Beckam: capelli rasati, firmatissimo da capo a piedi, diciamo che ostentava un po’quello che sarebbe diventato in seguito. Fu la mamma di Daniela a dargli la spinta decisiva: “bambina mia devi svegliarti, quello ti scappa e sarebbe un peccato”. Una cena con qualche amico e troppe ragazze rischiò di mandare tutto all’aria. Materazzi fu convocato da Daniela. Un discorso alla Mourinho, o me o la bella vita, Pochi mesi dopo erano insieme a Carpi, in un appartamento di ben 48 mq, girando con la Polo di lei con la sua Golf in garage perché consumava troppo. Senza tanti soldi, ma felici, come lo sono ancora dopo tanti anni.
La terza è Anna, l’ultimogenita di famiglia dopo Gianmarco e Davide, anche loro immersi fin da subito nel clima di casa Materazzi, fin da quando gli amichetti chiedevano loro se fosse vero che “vostro padre picchia anche la mamma”. Anna, come la mamma. “ Con lei cambio occhi, espressione, voce: se mi vedessero i giocatori ed i tifosi che mi danno del macellaio capirebbero molto di me” racconta nella sua autobiografia. Aveva 9 mesi quando “vide” il papà segnare contro la repubblica Ceca nel mondiale 2006. Lei non lo sa ma rischiò di volare in campo per l’entusiasmo di Daniela colta da raptus di gioia.
Se c’è una cosa che non faceva difetto a Materazzi era il saper reggere la pressione. Non è stato semplice ritrovarsi ad essere un caso planetario dopo la testata di Zidane. Fidel Castro, il premier israeliano, le più alte cariche governative d’oltralpe chiesero la sua testa o si interessarono a cosa avesse davvero detta a Zizou. La mamma del campione francese arrivò a dire che avrebbe gradito trovare i suoi testicoli su un piatto. Salvo poi metterci la faccia con il diretto interessato, come sempre: “L'incontro con Zidane? C'è stato. Stavo uscendo dall'albergo, quando qualcuno cercò di fermarmi: c'è un problema, mi dissero, c'è Zidane che sta parcheggiando proprio a fianco della tua auto. Risposi che non vedevo dov'era il problema; uscii, mi trovai di fronte a Zidane e sfruttai l'occasione per dirgli delle cose, cose che sappiamo io e lui, che restano tra noi. Diciamo che sono stato io a parlare di più e quando lui alla fine mi ha allungato la mano, io l'ho tenuta stretta e non l'ho mollata fino a che non mi ha guardato bene in faccia. Era quello che volevo. È andata così, per me è stato bello: per lui non so”.
Ma anche pressioni diverse, prive di visibilità internazionale ma non per questo emotivamente meno coinvolgenti . Il rigore di Siena che valeva uno scudetto battuto due volte per volontà di una arbitro insensibile, i rapporti spesso incandescenti con gli allenatori (Mancini docet) quando la sua parabola era già luminosa. Ma anche quando le cose stentavano a prendere la piega giusta, come nel 1998, quando non riusciva a mettere la testa fuori da Perugia per fare il salto nel calcio che contava. Non fu facile salutare tutti e andarsene in Inghilterra, all’Everton, anche e soprattutto per mettersi alla prova, capire e conoscere i propri limiti per riuscire ad andare oltre.
La permanenza oltre manica durò poco, un anno soltanto, nel quale riuscì a mettere insieme 27 presenze, un poker (di cartellini rossi) ed un gol. Fece in tempo a tornare in Umbria per le due stagioni più belle con la maglia amaranto. Nella seconda (2000-2001) lascia un segno tangibile a chi lo accusava di essere solo un difensore sgraziato con due piedi come ferri da stiro. I 12 gol non sorpresero il terzino che aveva segnato più di tutti in Italia fino ad allora. Giacinto Facchetti nel tunnel del Curi gli chiese scherzosamente di non superarlo, salvo poi portarlo in nerazzurro l’anno dopo (ovviamente Materazzi quel giorno segnò, era il 10mo gol della stagione quello che uguagliava il record del “Cipe”. Lui non esultò, sapendo di essere già nerazzurro l’anno successivo, probabilmente anche Facchetti, per lo stesso motivo).
Lo spogliatoio del Curi ha un posto speciale nell’album di ricordi di Materazzi. Non solo per il primo incontro con Facchetti, ma anche perché location di uno dei due grandi drammi sportivi che lo hanno visto tra i protagonisti. Nella vita di un giocatore del suo livello, vivere una gioia immensa è nella logica delle cose. Partecipare ad un dramma collettivo pure. Viverne due di drammi, nel breve volgere di due anni, è riservato solo a pochi.
A lui la sorte ha riservato due mesi di maggio pazzeschi. Quello del 2000, quando da capitano del suo Perugia vide gli juventini piangere dopo il gol di Calori che cuciva lo scudetto sulle maglie della Lazio. Durante i diluvio, mentre lo spogliatoio del Curi era allagato, i bianconeri con Antonio Conte in testa, premevano per il rinvio. Se la sentivano scivolare addosso che se la partita fosse ripresa per loro buttava male. “Quando dopo più di un’ora siamo tornati in campo per il nuovo riscaldamento, ho guardato per un attimo i giocatori della Juve e ho letto nei loro occhi la paura di perdere tutto. La stessa espressione che avrei ritrovato due anni dopo sui volti dei miei compagni dell’Inter nello spogliatoio dell’Olimpico”. Il 5 maggio del 2002 non ci furono solo gli sguardi di Materazzi, ci furono anche le sue parole ingenue, mosse dall’incredulità di quanto stava accadendo, dette in campo tra le lacrime a Simone Inzaghi: “ma cosa fate? Perché lo fate? Io vi ho fatto vincere uno scudetto…” . Il fato gli stava portando di via di mano il primo scudetto, quello sempre sognato. Un KO feroce per lui e per milioni di tifosi nerazzurri. Questione di tempo, solo di tempo, per rifarsi alla grande di quel pomeriggio con tanto di interessi, fino al Triplete e a quella maglia leggendaria “rivolete anche questa ?”
Qualche sofista si è chiesto se odiarlo o amarlo in prima persona permetta di raccontare Materazzi in maniera laica, evitando pregiudizi di qualsiasi tipo. Per quanto possa interessare ai lettori, io sono stato e sto dalla sua parte. “Tutti pazzi per Materazzi”… e chi pensa di non aver mai fatto cazzate in vita sua scagli la prima pietra.
Perché a prescindere da tutto il resto, lui ha incarnato lo spirito più autentico dell’Inter vincente del ciclo della grande Inter 2.0. Più del Principe Milito, più di Cambiasso, più di qualunque altro dei campioni di quella squadra, quasi tutti tecnicamente più dotati di lui. Se loro, insieme a Zanetti erano le facce istituzionali di quegli anni nerazzurri, Materazzi era il ritratto della fame di vittorie dei tifosi. Se loro erano la lucidità della tattica mourinhana messa in campo, lui era la sintesi perfetta della debordante volontà del portoghese di dominare, di lasciare un segno incancellabile, anche prendendo per i fondelli gli altri, perchè no? Ed i tre minuti che Mourinho gli concede nel recupero della finale del Bernabeu parlano chiaro. Per lo Special One Materazzi doveva figurare nel tabellino di quella giornata memorabile, per quello che aveva fatto, per ciò che aveva dimostrato. Un premio piccolo, ma dal significato umano enorme, come poi testimonierà l’abbraccio tra i due in lacrime fuori dallo stadio. Un abbraccio tra due uomini dal carattere di ferro. Da parte mia, se fosse possibile ne vorrei 3, possibilmente anche 7 nella squadra odierna di Conte con il carattere di Materazzi. E scommetto che anche il mister sarebbe d’accordo con il sottoscritto.