“Chi soffre più di un interista?†Massimo Moratti, un errore non cambia una storia
E’possibile parlare di Massimo Moratti e di Inter senza cadere nelle suggestioni del Triplete, di Mourinho, Calciopoli, scudetti, Recoba, Ronaldo, 5 maggio e via dicendo? L’esercizio è senza dubbio arduo ma è necessario per dimostrare l’assioma secondo il quale l’importanza che Moratti ha avuto per l’Inter non può rinchiudersi nel solo recinto degli esiti sportivi. Risultati che pure hanno condizionato pesantemente la percezione che l’opinione pubblica, interista e non, ha maturato nel tempo nei suoi confronti.
Per i tifosi nerazzurri la storia della sua presidenza dovrebbe essere ricordata con lo stesso metodo con cui a metà degli anni ’70 Carosello reclamizzava la Grappa Piave. “Via la testa, via la coda, resta solo il cuore”.Ma nel caso di Moratti anche la testa e la coda del suo periodo sono necessari per rappresentare in maniera compiuta il suo impatto sulla storia dell’idem sentire di un popolo, rispetto al quale viveva non un passo avanti ma più che altro dentro, anche se da primus inter pares. In sintesi, la figura di Moratti e la sua presidenza devono essere lette e analizzate tenendosi lontani dagli stereotipi che la letteratura calcistica ha imposto, dai luoghi comuni che hanno voluto marchiare il personaggio con degli imprinting semplicistici se non addirittura privi di fondamento.
Un esempio? Nel 2007 Panorama annunciò che avrebbe salvato dai debiti l’Unità, lo storico giornale del PCI e di tutti i suoi derivati, fondato da Antonio Gramsci nel 1924. Massimo Moratti smentì subito la notizia ma la suggestione restò in vita per qualche settimana. Qualche buontempone commentò dicendo che il figlio di Angelo Moratti quanto a masochismo aveva già dato con tanti anni di Inter. “Per me è difficile vedermi di sinistra, sono petroliere, proprietario di una squadra di calcio, quello tra i presidenti che spende di più… Ma la gente mi considera di sinistra” aveva risposto pochi mesi prima in una intervista a Sabelli Fioretti. Luoghi comuni, appunto, che hanno segnato tutta la parabola di Moratti presidente nerazzurro, così come quello, perfido, secondo il quale alla morte del capostipite Angelo a Gianmarco sia spettato occuparsi della Saras e a Massimo dell’Inter, in una fantomatica ripartizione ereditaria delle sostanze e delle passioni.
Se c’è una città dove, ricchezza e passioni (civili, artistiche, e perché no, anche sportive) si mescolano in un turbinio di creatività mai fine a sé stessa, questa è Milano. I Falck lasciarono un segno indelebile nella storia d’Italia del 20mo secolo, sostenendo la resistenza contro i tedeschi e ospitando i primi vagiti della nascente Democrazia Cristiana, Feltrinelli ha spinto gli italiani di diverse generazioni a fare della cultura l’arma per affrontare le sfide più impervie, Pirelli è stato uno dei primi marchi a confrontarsi e vincere la sfida della globalità. Finita l’epoca di queste grandi famiglie milanesi, i Moratti sono rimasti gli ultimi rappresentanti di quella borghesia industriale aperta al progresso e agli altri, lungimirante non solo in funzione del proprio tornaconto ma della crescita della comunità.
Massimo Moratti è inserito a pieno titolo in questa nobile tradizione. La ricchezza gli è servita per comprare una passione, lui stesso lo ha sempre ricordato, ma avendo sempre davanti a sé come stella cometa della sua missione l’insegnamento di papà Angelo secondo il quale l’obbligo di un presidente è distribuire felicità tra la gente. Come del resto faceva suo fratello. “Era difficile sentirglielo ammettere” ma anche Gian Marco “doveva coltivare qualche senso di colpa per tanta ricchezza”. Mentre tutti correvano a Saint Tropez, lui e la sua famiglia dedicavano il loro tempo libero e risorse ingentissime alla crescita della comunità di San Patrignano.
Se Gian Marco si dedicava a chi doveva uscire dai problemi di droga, Massimo si dedicava ai “drogati” di Inter. Si può discutere sulla diversa nobiltà dei fini, non sulla generosità degli atteggiamenti, sull’altruismo di fondo che ha spinto i due fratelli nelle loro azioni. Quando fu definito il passaggio di Ronaldo dal Barca all’Inter, Milly Moratti rimproverò il marito, perché quei 50 miliardi potevano andare in beneficenza per aiutare tante persone in difficoltà. “Chi soffre più di un interista ?” fu la risposta del Presidente. Sembra ironia ma è la fotografia meglio riuscita del senso che Moratti ha dato al suo impegno per l’Inter, godere di una passione non solo e non tanto per il proprio piacere personale ma per regalare alla sua gente la possibilità di sognare e gioire insieme a lui.
Chiunque voglia studiare il fenomeno dell’interismo con la leggerezza comunque dovuta all’argomento ma tralasciando l’ironia, al di là delle genesi storica non potrà esimersi da un confronto con questo humus culturale milanese e familiare. L’Interismo è un fenomeno socio-psicologico dentro al fenomeno sportivo, su cui si è scritto molto e si scrive tuttora. Le sue radici affondano nel passato ma il tempo è trascorso senza che la modernità ne abbia consumato o stravolto gli ideali di fondo, che hanno sempre guardato all’”altro” mai vedendolo come un diverso, con uno spirito di ribellione mai sopito davanti alle ingiustizie ed una nuvola di nobiltà ad avvolgere tutto. Gli anni della vicenda presidenziale di Massimo Moratti, dal 1995 al 2013, ne hanno segnato l’apoteosi, soprattutto quando si è trattato di insorgere contro la melma di un sistema di potere deviato che qualcuno chiamava sfiga. Il merito di Moratti è stato quello di capirla in ogni sua sfaccettatura, combatterla su ogni terreno e in ogni aula e, alla fine debellarla, almeno nelle sue manifestazioni più insidiose.
L’ex Presidente ha rappresentato questo quadro quando Sky Sport gli ha dedicato un appuntamento dei Signori del calcio. “L'interista di per sè è bello proprio per questo, è un tifoso attentissimo, un po' presidente, un po' allenatore, un po' snob. Il che lo fa un tifoso speciale. Ed è per questo che è bello essere presidente dell'Inter perchè i tifosi sono difficili, speciali, riconoscenti, ma non si lasciano andare nè nell'estrema felicità nè nell'estrema disperazione. Altro argomento è perchè uno fa una determinata cosa. Mio padre era una persona generosissima e credo che abbia preso l'Inter proprio perchè ci teneva a far crescere questa squadra, ci teneva che diventasse sempre più importante. Più o meno la stessa cosa è successa a me e devo dire che è si un difetto forse pensare che gli altri siano contenti e quindi tu automaticamente sei felice però devo dire che forse è anche uno scopo e quindi questa è una delle cose più belle… Lo snobbismo di cui parlavo sta proprio nel fatto di sentirsi particolari, più intelligenti, più sofferenti. Era una bella cosa, ma anche una bella cosa da superare. Fortunatamente siamo riusciti a superarla, devo dire che c'era pure del compiacimento, qualcosa di spiritoso anche. Adesso io non voglio entrare in cose serie, ma c'erano anche delle giustificazioni dietro questa sfiga “.
Per Moratti l’Inter è stato un sentimento che si trasmette dai tifosi alla società e poi ai giocatori e tutto diventa passione, ricordo, affetto che ci completa la vita. E sempre con l’idea che c’è un domani, perché domani c’è un’altra partita e domani si ricomincia e si riparte. Sentimento e passione, non business perché per lui il calcio non è mai stato un’azienda, a maggior ragione nel caso dell’Inter. Perimetri e parametri erano importanti nella sua visione, ma la scienza aziendale non era il suo riferimento principale, perché non c’era tempo per i bilanci. Ogni settimana o addirittura ogni tre giorni, per lui c’era una verifica e il risultato di una partita contava sempre più dei numeri o della programmazione.
“E poi ci sono i tifosi, con i loro sogni, le loro speranze, le loro aspettative. Ho sempre pensato che fossero loro i veri padroni dell’Inter. Per questo anche ai tempi di papà, per tutti noi della famiglia, l’Inter è sempre stata soltanto una passione. E proprio per questo guidarla è anche una sofferenza, che va al di là di quella del tifoso, perché ne hai la piena responsabilità. Ma è stata un’esperienza magnifica”. Non c’è stato un giorno della sua presidenza in cui Moratti non sia stato coerente con queste parole. Da quando disse” no grazie” a Luciano Moggi che si proponeva per entrare in società, fino a quando , in tempi diversi, si è trovato di fronte a giocatori con problemi che avrebbero convinto qualunque altro presidente a risolvere il loro contratto. Fece curare a sue spese Kanu e Fadiga, entrambi con problemi cardiaci. Nei giorni in cui alla figlia di Burdisso fu diagnosticata la leucemia, il difensore disse al suo presidente di essere disposto a restare senza soldi e senza squadra pur di stare vicino alla piccola.”Fai quel che ti senti” gli rispose Moratti “l’Inter è a tua disposizione”. La creazione e lo sviluppo del progetto Inter Campus è infine l’esempio meno appariscente agli occhi dei media ma il più significativo del modo morattiano di intendere e vivere l’Inter.
Più del business potè la passione, dunque. Se Moratti non fosse stato fedele a questa linea oggi la storia dell’Inter potrebbe essere molto diversa, in peggio naturalmente. Con un’unica eccezione, quella del post triplete. Nell’intervista rilasciata alla Gazzetta in occasione del decennale della vittoria al Bernabeu l'ex Presidente riconosce di non essere riuscito a capitalizzare quell’impresa, “Mi occupai delle cose di campo meno di quelle commerciali, era un calcio che cambiava”. Come un bimbo che sa di averla fatta grossa, Moratti si rifugia in una bugia, piccola nella formama non nella sostanza economica. Poteva massimizzare il profitto nelle settimane del mercato di quell’anno, i top club di tutto il mondo avrebbero fatto pazzie per Milito, Snejider, Maicon, all’Inter sarebbe arrivata una montagna di soldi che avrebbe permesso di rinnovare una squadra ormai sfinita, evitare la crisi nei bilanci e magari anche il settlement agreement. Non guardò al campo, guardò alla bellezza accecante di quel giocattolo che aveva costruito e che gli aveva regalato il coronamento del suo sogno di una vita, come narcotizzato dalla gioia sua e dei tifosi.
Moratti non lo confesserà mai ma resta la sensazione che non avrebbe ceduto nessuno dei suoi ragazzi per nessuna cifra del mondo in quel mercato e le sostanziose prebende contrattuali che elargì a molti di loro lo confermano.
Quella bugia è costata molto negli anni successivi ma ancora deve essere contestualizzata con la massima onestà. Ogni tifoso si guardi allo specchio e risponda: in quel momento, in quel preciso momento, pochi giorni dopo aver pianto di felicità per l’impresa più grande di sempre, quanti avrebbero accettato in silenzio lo smantellamento di quella squadra in nome del bilancio? Quasi nessuno vero? Giusto così, il ruolo dei tifosi era questo. Era casomai il Presidente che doveva annusare il vento che stava cambiando e anticipare i problemi ma per fare questo occorreva cuore neutrale e animo da imprenditore puro. Tutto il contrario di quello che Massimo Moratti è sempre stato. Per la fortuna dell’Inter e degli interisti mi sento di dire e chi non concorda non me ne voglia.
Ha condiviso la sua strada con pochi, la sua guida non prevedeva altri passeggeri che non vivessero il cammino con la stessa intensità ideale. Solo Peppino Prisco e Giacinto Facchetti sono stati capaci di leggere l’Inter con gli stessi occhi del patron perché anche loro spinti dal demone della passione. In forme diverse l’uno dall’altro, l’esuberanza e l’ironia di Prisco completavano a meraviglia la riservatezza e l’aplomb dell’ex capitano, insieme tratteggiando perfettamente l’anima bauscia e signorile della storia nerazzurra. Con il tempo anche la passione, gli ideali, la generosità hanno dovuto fare i conti con un calcio che stava diventando sempre più forma di intrattenimento che sport. Con le ovvie conseguenze in termini di costi di gestione, parametrati per i grandi club su dimensioni economiche troppo diverse da quelle di Moratti.
Quando venne il momento di consegnare la società nelle mani di Thohir, più di uno si lanciò in giudizi ingenerosi perché ignoranti, nel senso di ignorare la storia dell’Inter e della famiglia Moratti. Si parlò di fine di una gestione poetica ed irrazionale di una storica famiglia della borghesia milanese, di fine di un tifo viscerale e identitario, di fine di un modo di tifare, di distinguersi, di emozionarsi. Niente di più sbagliato. Chi è venuto dopo di lui ha pensato e realizzato misure diverse in fatto di gestione e managerialità, bilanci e organigrammi. La sfida della globalizzazione ha imposto capitali enormi per tornare ai vertici e restarci stabilmente, le strade della comunicazione sono sempre più difficili da percorrere per attirare le nuove generazioni. Ma né Thohir né tantomeno Zhang si sono permessi di mettere in dubbio le fondamenta dell’interismo di cui i Moratti sono stati gli artefici principali. Sapevano di non doverlo e di non poterlo fare. Non glielo avrebbe permesso San Siro, non glielo avrebbe permesso la gente dell’Inter, che continua a vivere la sua diversità e le sue emozioni con l'orgoglio di sempre, in questi 112 anni.
Buon compleanno Presidente Moratti.