Diventare una bandiera dell’Inter, un simbolo dell’interismo tifando Milan fin dall’infanzia. Quando era bimbo e giocava a Settala nella squadretta del suo paese natale, Beppe Bergomi aveva i rossoneri nel cuore. La sua felicità andò ai massimi livelli quando aveva 11 anni e un osservatore milanista lo convocò per un provino. Il test andò non bene, benissimo, l’ok del club rossonero era certo. Fino a che non arrivarono gli esami medici, aveva i reumatismi nel sangue, lo aspettava un lungo stop per guarire. “Ne riparleremo” gli fecero sapere dal Milan, i rapporti di Bergomi con il Milan finirono li, per fortuna dell’Inter.
“La famiglia è il teatro che ci segna per la vita” ha detto qualcuno, il clima familiare è decisivo per forgiare il carattere di un ragazzino, Beppe è diventato campione di normalità perché questa era la caratteristica del suo ambiente familiare. Papà benzinaio e noleggiatore di auto, mamma casalinga dedita a tempo pieno alla macchina da cucire e ai fornelli, un fratello maggiore, Carlo. Il calcio non dominava gli interessi di casa Bergomi, papà Giovanni era milanista all’acqua di rose, il suo tempo libero era dedicato non a San Siro, casomai alle moto e alle partite a scopa al circolo del paese dove faceva coppia fissa con il parroco Don Narciso. Fino a quando Beppe non iniziò ad innamorarsi del pallone, l’unico accessorio “calcistico” presente in casa erano un paio di scarpe da calcio con la suola rossa, regalategli da un vicino di casa cui il fato aveva mandato 4 figlie femmine.
C’è qualcosa di più normale di una adolescenza passata tra la pompa di benzina della famiglia, il campetto dell’oratorio e la veste da cherichetto? C’era un unico elemento che rompeva questo film di un’epoca lontana, quasi un film in bianco e nero di quelli con il finale scontato fin dalle prime scene: il fisico del giovane Beppe. Piccolo salto indietro: dopo gli esiti degli esami medici che bloccarono il suo futuro milanista, il ragazzino guarì rapidamente e per darne prova si mise a fare gli straordinari in campo. Il suo fisico, il talento naturale gli permettevano di giocare nel fine settimana in due squadre, con i Giovanissimi il sabato, con gli Allievi la domenica. In difesa da subito naturalmente, ma con la sua strapotenza fisica dominava anche nell’area avversaria, 24 gol il primo anno, addirittura 30 il secondo.
Non c’erano i cellulari, non c’era internet ma la voce si sparse rapidamente fino a Milano. Sandro Mazzola mandò un suo uomo di fiducia a vederlo, il 1 settembre 1977 il provino e il tesseramento immediato. Quel giorno i selezionatori scelsero due ragazzi sui 500 circa visonati. Erano Bergomi e Riccardo Ferri. Riccardo ha confessato di aver pensato che quel tipo coi baffetti da sparviero fosse l’autista del pullman che doveva riportarli a casa salvo poi ritrovarselo a fianco per una vita intera. La Settalese visse per anni su quella cessione: 3 milioni di lire immediatamente e due versamenti da 5 milioni ciascuno via via che Beppe avesse proseguito il percorso di crescita nelle giovanili nerazzurre.
Quando arrivò all’Inter il suo primo allenatore Arcadio Venturi restò impressionato. “La cosa sconvolgente di quel ragazzino è che non era un ragazzino. Io me lo trovai di fronte quando aveva quattordici anni e vi assicuro che ogni domenica di campionato passavo mezz’ora a convincere i dirigenti della squadra avversaria che il nostro numero 6 era effettivamente un Allievo: ma puntualmente nessuno mi credeva, nemmeno di fronte alla carta d’identità di Beppe. I suoi compagni neppure portavano le tessere al campo, però guai se lui ne era sprovvisto, non lo avrebbero fatto giocare”. Pochi anni dopo, quando Beppe si affacciava le prime volte alla prima squadra, fu Giampiero Marini a consegnare alla storia quella “anomalia”. Aveva 17 anni, si stava cambiano nello spogliatoio, il “Pinna d’oro” lo squadrò bene prima di apostrofarlo “ E tu avresti solo 17 anni? Ma se sembri mio zio…”
Faceva le scarpe ai coetanei con i baffi ma soprattutto con la serietà e maturità. I grilli per la testa non li aveva mai avuti, quando il papà se ne andò aveva 16 anni e la maglia azzurra della nazionale Juniores sulle spalle. Lasciò i compagni nel ritiro di Lipsia per correre vicino alla mamma. Il calcio e gli eventi della vita lo hanno sollevato da terra troppo presto, non ha avuto tempo per essere adolescente.
Mettiamo le date in fila: è nato due giorni prima del Natale del 1963, Nel gennaio del 1980 il Sergente di ferro Bersellini lo fa esordire in prima squadra in coppa Italia contro la Juventus. Il 21 febbraio del 1981 era andato al ristorante delle giovanili per aspettare il pulmann con gli altri ragazzi. “No Beppe” gli disse il suo mister, “vai di là”. Di là c’era la prima squadra che stava partendo per Appiano Gentile, i grandi lo aspettavano, il giorno dopo l’Inter giocava contro il Como. Con Canuti fermo per un malore improvviso durante la notte, quando in campo si infortunò Lele Oriali, Bersellini si girò verso la panca e vide Pancheri, Tempestilli e lo Zio. Fece scaldare lui e Pancheri, quando arrivò il cambio fu lui a rilevare Lele. Entrava in serie A a poco più di 17 anni, ne sarebbe uscito quasi due decenni dopo con due sole maglie, quella azzurra e quella nerazzurra.
Aveva già fatto in tempo a rubare tonnellate d’affetto ai tifosi ma qualche mese dopo il cielo mandò un segno inequivocabile sull’impatto che il giovanissimo Bergomi avrebbe avuto sul mondo nerazzurro. Il 6 settembre 1981 il calendario della prima fase di Coppa Italia parlava di derby, all’Inter bastava il pareggio per andare avanti, il Milan neopromosso dalla serie B doveva solo vincere. Segnò Novellino, Spillo Altobelli pareggiò quasi subito. In avvio di ripresa fu lo Squalo Joe Jordan a beffare di nuovo Bordon. All’89mo l’Inter era fuori dalla Coppa, il pallone dell’Ave Maria fu un calcio d’angolo battuto dalla sinistra, Spillo pizzicò la palla di testa. Sulla ricaduta arrivò lo Zio che scaricò un sinistro nell’angolino di Piotti. Gioco partita e incontro, tutti a casa alè con Beppe indemoniato (una volta tanto) ad abbracciare Bersellini. L’11 luglio 1982, 10 mesi dopo quel gol, Bergomi marcava Rummenigge nella finale di un mondiale esaltante.
In questa sinfonia sempre in crescendo di eventi non c’era tempo per i passatempi dell’adolescenza e neanche per le ragazze. Ok la timidezza, ma ci metteva anche del suo per sembrare ancor più imbranato. Nella prima intervista da campione del mondo si raccontò così. “Sono timido, tremendamente timido. Già con i tifosi o con i giornalisti faccio fatica, figuriamoci con le ragazze. Certe volte mi capita che qualcuna si avvicini per chiedermi l’autografo, forse un altro se ne approfitterebbe: “stasera cosa fai?”, “come ti chiami?” eccetera. Io no, io resto lì a firmare autografi e magari ci faccio una brutta figura…” Eppure c’era cresciuto tra bambine e ragazze, fin dalle elementari, quando papà e mamma decisero che lui e suo fratello non potevano crescere adeguatamente in una famiglia i cui orai erano sempre incerti e furono iscritti al Collegio San Giuseppe delle Suore di Melzo. Suore, alunne, bidelle, donne da tutte le parti con pochissime eccezioni. Neanche la mamma gli dava una mano più di tanto visto che qualche tempo dopo ammetteva che “ il vero punto debole, nella sua grande maturità precoce, sono i rapporti con le ragazze. Non voglio dire che sia un ragazzo poco serio, tutt’altro. Ma insomma, io il mio Beppe sposato proprio non riesco a immaginarmelo”.
Ci volle lo scudetto dei record dell’Inter di Trapattoni per far svegliare il timidone. Una festa in un locale milanese, una splendida ragazza di Cusano (patria del Trap guarda caso), 3 anni di fidanzamento con Daniela prima di portarla all’altare nel 1993. Dio li fa e poi li accoppia si direbbe, visto che la sua riservatezza è forse ancora maggiore di quella di Beppe. Un figlio tennista, una figlia con un fisico da modella, fidanzata con un giocatore della Primavera della Fiorentina. Il gossip sui Bergomi finisce qui, probabilmente anche questo un retaggio familiare antico, visto che il papà seguì le gesta in campo Beppe una sola volta mentre la mamma gli ha sempre il risultato della partita quando tornava a casa. “Durante le partite andava al cimitero a trovare mio padre” ha detto lo Zio qualche tempo fa a Inter Channel.
L’Inter, la nazionale e la famiglia, la storia di Beppe è tutta qui e scusate se è poco. Ogni tanto anche i numeri raccontano una vita, quella dello Zio con l’Inter parla di 756 presenze, secondo solo a Zanetti, 20 anni con quei colori addosso, 7 stagioni con la fascia da capitano, 1 scudetto e 3 coppe Uefa in bacheca. Strano a dirsi ma anche la fine del suo rapporto con l’Inter è da ascrivere in qualche misura al sig.Ceccarini, l’arbitro che negò il rigore a Ronaldo sul fallo di Iuliano nel 1998. Le polemiche dopo quello scandalo furono enormi. Quando Lippi arrivò inopinatamente sulla panchina nerazzurra chiese la testa di 3 giocatori, Pagliuca, Bergomi e Simeone. Il Cholo andò alla Lazio, Pagliuca al Bologna, Bergomi appese le scarpe al chiodo. “Forse mi faccio un solo rimprovero” ha commentato Bergomi qualche anno fa, “a fine carriera avrei dovuto rinviare un po’ l’addio al calcio. Mi volevano al Coventry, dovevo finire lì. Mi sarebbe stato utile conoscere un altro mondo. Ma va bene così.”.
E’ stata però la Nazionale a regalargli l’emozione più grande e la soddisfazione più bella. Vincere un mondiale a poco più di 18 anni è fantastico, tornare in nazionale per il quarto mondiale dopo 7 anni dall’ultima convocazione una favola, una rivincita da far gonfiare il petto di orgoglio ai più moderati, non allo Zio. Sacchi lo aveva scaricato nel 1991 in nome della zona. Cesare Maldini prima dei mondiali francesi del ’98 capisce che l’esperienza, il rigore, la classe dello Zio dovevano trovare un posto nelle sue convocazioni. Il mister gli parlò senza infingimenti, vieni come riserva. Bergomi saltò le ultime 4 di campionato per recuperare da un infortunio al polpaccio e farsi trovare perfettamente guarito per la Nazionale. Riserva a 35 anni ci può stare, ma… riserva un corno. Subito dentro nel girone contro l’Austria dopo lo stop di Nesta, dentro tra i primi undici nell’ottavo di finale contro la Norvegia, dentro da titolare anche nel quarto di finale con i padroni di casa. Lui giocava quel mondiale, molti altri lo guardavano ammirati e sorpresi. 5 grandi (Passarella, Prohaska, Platini, Zico e Hoddle) con cui aveva incrociato i tacchetti in quello del 1982 sedevano sulle panchine di diverse nazionali.
La seconda vita Beppe la sta passando davanti a microfoni e telecamere. Stessa serietà, stesso rispetto per tutti, come quando era in campo. Stessi avversari anche. Se Lippi lo spinse a lasciare il calcio, altri della Juve provarono a farlo fuori anche dalle TV. E’stato Fabio Caressa a ricordare in un intervento alla Bocconi di un Bologna Juventus del 2006 commentato insieme allo Zio. Due rigori non concessi per falli su Cipriano fecero scoppiare il pandemonio. “Dopo che noi affrontammo l’argomento in telecronaca dicendo che due rigori non erano stati concessi, arrivò una telefonata all’allora amministratore delegato di Sky dalla dirigenza della Juventus che urlando chiedeva la mia rimozione e quella del mio collega, Beppe Bergomi.” Per fortuna di Bergomi e Caressa non tutti erano disponibili a mettersi a pelle di leopardo fronte ai diktat bianconeri. “Questa cosa accadde sotto Natale e lui stesso durante il cocktail ci disse di ricordarci che noi siamo Sky e siccome diamo noi i soldi alla Juventus per i diritti, magari un giorno chiederemo noi di decidere il loro allenatore ma loro non decideranno mai su quello che deve fare Sky. Questo fa capire che forza servisse in quel momento per resistere ad alcune pressioni.”
Questo episodio serve a capire a quale categoria possa essere ascritto l’interismo di Bergomi, fatto ancora oggi di rigore e di onestà intellettuale anche di fronte ai microfoni della Tv, anche a costo di ricevere critiche dai suoi ex tifosi che lo giudicano per niente parziale rispetto ai suoi colleghi opinionisti legati ad altre squadre. Quanto di più lontano possibile dal “bauscismo”. Se qualcuno va alla ricerca di ironie o aneddoti birichini che lo vedano per protagonista perde tempo, ai suoi tempi quella era riserva di caccia di Zenga e Berti. Loro pensavano a movimentare il clima, i giornalisti andavano a caccia di loro perché qualcosa rimediavano sempre. In un periodo i cui la rete era ancora solo quella gonfiata da Spillo la domenica, in cui Berlusconi dominava l’etere e il calcio riuscendo a far passare Ambrosini e Colombo per italiani di passaporto ma brasiliani nel Dna, uno schivo come Bergomi rischiava di passare per un semplice comprimario. Neanche lo spirito ribelle dei 44 padri fondatori albergava in lui. Mai una marachella memorabile in gioventù, mai una dichiarazione oltre le righe da professionista. Un perfettino? Non proprio, chi avesse questa idea vada a vedere chi è il difensore più espulso nel calcio moderno. Montero è irraggiungibile, nonostante giocasse con quella maglia, ma subito dopo c’è lo Zio. 11 cartellini rossi non sono una enormità per una carriera longeva come la sua però raccontano di uno buono e bravo ma che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, per sé e per la maglia che indossava.
L’interismo di Bergomi è sicuramente per niente istrionico, meno appariscente ma anche più profondo per il legame viscerale con i colori nerazzurri. Ha vestito solo quelli, ha voluto solo quelli e Dio solo sa quanti club lo avrebbero accolto a braccia aperte con valigie di quattrini pronte per lui. Il suo potrebbe essere definito interismo calmo ma autorevole, un filone dove naviga insieme a personaggi enormi dalla storia dell’Inter. Come non vedere affinità tra il suo modo di vivere l’Inter e quello di Facchetti e Zanetti? Lo Zio divenne senatore dello spogliatoio quando gli altri alla sua età ancora raccolgono i palloni della prima squadra dopo l’allenamento. Giacinto e Javier non hanno bruciato le tappe come lui ma insieme a lui hanno costruito l’immagine di un club in cui né le vittorie né il denaro possono essere anteposti ai valori della persona e dell’Inter.
Beppe lo ha raccontato in poche parole ad Andrea Vitali nel suo libro “Bella Zio”. “Avrei capito durante la mia carriera che gli incentivi economici c’entrano poco o nulla con il raggiungimento del risultato, quello che fa la differenza è la risposta aduna domanda molto semplice: perché sto facendo quello che sto facendo?…La risposta che ognuno di noi dà è la base della motivazione…non sono diventato campione del mondo perché strapagato (a quei tempi in quanto giovane esordiente in prima squadra avevo lo stipendio più basso in assoluto, 18 milioni delle vecchie lire un decimo dei miei compagni di squadra) ma perché giocavo per il piacere di giocare, quando correvo dietro ad un pallone mi sentivo realizzato prima come uomo che come calciatore”. Proprio come i giocatori di oggi…