Sfairakrésis, una parola che tradotta dal greco richiama il concetto del rompiballe, noioso, poco intelligente, degno di scarsa attenzione. Agli inizi della sua carriera forense Peppino Prisco si era fatto fare un timbro con questa parola, con cui individuare le pratiche che lo interessavano poco o niente. Il timbro è rimasto nella sua cassetta degli arnesi per sempre, destinato non solo ai fascicoli ma anche alle persone. Solo due cose non lo hanno mai annoiato nella sua vita terrena (ed è facile presumere sia così anche in quella successiva): i suoi alpini della Julia e l’Inter.
Non è dato sapere se fu per non annoiarsi che a 18 anni si arruolò e nell’agosto del 1942 partì da sottotenente per il Fronte russo con la Divisione Julia. Il tarlo del calcio già lo rodeva da tempo, poco prima di partire aveva rinnovato l’abbonamento a “Calcio illustrato” e aveva portato con sé un pallone per far giocare il suo battaglione. Ogni settimana andava comprare per 30 lire un chilo di sigarette che poi distribuiva ai suoi alpini. Calcio e sigarette diventarono un lontano ricordo solo pochi mesi dopo quando a metà gennaio del 1943 iniziò la ritirata nella steppa, 380 chilometri a piedi nel gelo russo e con l’armata sovietica a chiudere tutte le vie di fuga. Fino al 26 gennaio, quando a Nikolajewka le penne nere riuscirono ad aprirsi l’ultimo corridoio possibile. La “passeggiata” proseguì fino al 25 febbraio quando i reduci arrivarono a Romny, che voleva dire salvezza. Erano partiti 1600 alpini e 53 ufficiali, a casa tornarono 159 soldati e 3 ufficiali, tra cui lui. Facile capire perché a casa Prisco il 26 gennaio veniva festeggiato come il Natale, finchè Peppino è stato tra noi.
Di sicuro la noia non è stata sua compagna di viaggio negli 80 anni della sua vita, come testimoniato dal figlio Luigi, anche lui avvocato: “al mio primo otto in condotta mi fece i complimenti, prendono dieci le persone noiose”.E’ altrettanto certo che non si è annoiato chi gli è stato vicino, dalla famiglia ai colleghi in Tribunale, dai tifosi interisti a quelli avversari. Verso la fine del 1946, al primo incontro con Maria Irene detta Lalla,lei gli raccontò, forse burlando, di essere monarchica e juventina. Lui aveva votato per la Repubblica e quanto al calcio… Erano fidanzati entrambi, salutarono i rispettivi partner e due anni dopo erano marito e moglie. Forse ripensando a quel primo incontro Peppino non gli risparmiava uno scherzo. Una volta erano al ristorante Santa Lucia, c'era un violinista che suonava tra i tavoli. La Lalla era infastidita. Lui, conoscendo la sua timidezza e sapendo che non amava particolarmente le canzoni napoletane, mise mille lire in mano al suonatore dicendogli: “mia moglie adora Core 'ngrato, ma gliela suoni da vicino e molto forte, perché è sorda”. Lui eseguì, sembra che Lalla non gradì affatto.
La moglie doveva costantemente tenere sotto controllo la sua avidità di caffè e salame. Il caffè andava via a fiumi, anche 30 in una giornata, ma c’era da capirlo, tra giudici e avvocati, milanisti e interisti ogni occasione era buona per una capatina al bar. Il salame invece era più difficile da nascondere ma per fortuna c’erano le cene di lavoro, dove le mogli di solito non andavano. Quando un amico gli fece dono di alcuni salami di particolare pregio, prima di entrare in casa bussò al portone del figlio Luigi, suo dirimpettaio. “Sono per me?” chiese ingenuamente. “Anche…ma qualcuno lo vorrei mangiare anch’io, nascondili tu altrimenti tua madre li regala a qualcuno”. Anche per questo aveva messo su qualche chilo di troppo. Quando un amico medico gli consigliò un po’ di moderazione perse 15 chili. Un collega avvocato, incrociandolo in Tribunale e vedendolo così’ smagrito gli chiese: “Come va avvocato dopo l’operazione?”. Fu il segnale che poteva riprendersi le sue libertà con i salumi.
Il figlio Luigi invece non ha subito gli scherzi del papà. Come poteva? Anche lui avvocato, anche lui alpino nella Julia, anche lui interista, le partite dell’Inter li vedevano sempre vicini allo stadio o in TV. Un po’ troppo tranquillo, Luigi, per i gusti di Peppino. Una volta allo stadio fece notare al padre che stava protestando in maniera troppo accesa del padre. Non l’avesse mai fatto, si sentì trattare quasi come un milanista: “Cazzo, ma vieni a fare il tifo per l’Inter o per l’arbitro?». La figlia Anna non gli ha mai dato problemi in tal senso ma suo malgrado è entrata di diritto nell’olimpo delle battute paterne. “Io non sono razzista ma non permetterei mai a mia figlia di sposare un milanista”.
Giorgio Erede invece era suo collega di studio, Peppino lo aveva preso con sé perché era bravo ma soprattutto perché figlio di un alpino disperso in Russia. Prisco gli affidava cause importanti ma nei 20 anni di collaborazione i veri incarichi di fiducia che gli assegnò furono due. Il primo era quello di “cantiniere”, con il compito di non far mai mancare lo champagne in studio per festeggiare le molte vittorie in tribunale e le poche dell’Inter di quel periodo. Il secondo era forse ancor più importante. Erede doveva seguire costantemente l’acquisto di decalcomanie con lo stemma del Milan che poi il personale delle pulizie doveva sistemare sul fondo della tazza del bagno per creare un effetto esilarante anche nel momento della pipì. Anche solo da questo particolare si capisce con quale spirito Prisco affrontasse le cose della vita.
Oreste Del Buono, suo grande amico/nemico rossonero, lo ha definì un “Richelieu a volte rasputineggiante“. L’ironia brillante, feroce, ne facevano un demone per chi se lo trovasse sulla sua strada, in uno studio televisivo, in un’aula di tribunale o davanti ad un caffè. Una dote che Peppino aveva sviluppato fin dall’infanzia, quando giocava a pallone con gli amichetti in Via Podgora. Era già un piccolo comandante, la palla la portava lui dunque lui sceglieva chi giocava e chi stava a guardare. E quando i condomini protestavano per il frastuono era lui a rispondere per tutti, “ma va a lavurà, pirla!” Alberto Cantu qualche mese fa ha scritto che” Prisco sfornava battute che erano come le punizioni a foglia morta di Corso e i dribbling sul portiere di Meazza”. Il paragone gli avrebbe fatto piacere, “Peppin” era uno dei due grandi amori “nerazzurri”, l’altro era il Fenomeno. “ Di Ronaldo ho una foto sulla scrivania, accanto a quella di Meazza. Prima c’era in mezzo quella dei miei genitori, ma l’ho tolta, sperando che capissero.”
Il periodo che va da Meazza a Ronaldo racchiude (quasi) tutta la storia nerazzurra di Prisco. Era diventato interista a 10 anni, quando gli amici di famiglia portarono a casa un vassoio di pasticcini per festeggiare la vittoria nerazzurra nel derby. Lui di calcio non sapeva ancora granchè ma quei dolcetti ebbero un effetto miracoloso, per lui e per l’Inter. Medie e Liceo al Berchet, dove stabilisce un record che pare tuttora ineguagliato: 25 sospensioni. E intanto aveva già iniziato a frequentare la stampa sportiva e lo stadio dei nerazzurri. Il papà (avvocato come il nonno) gli aveva regalato l’abbonamento a Calcio Illustrato, la rivista top dell’epoca, cosa che ben pochi potevano permettersi. Dopo averla letta la faceva circolare tra gli amici rafforzando con questo gesto la sua leadership nel branco. E la domenica tutti allo stadio dove Meazza già dettava legge. E non solo all’Arena intendiamoci. Oggi a molti fanno fatica due ore di auto per andare a San Siro. Alla fine del 1938 l’Inter si giocava lo scudetto all’ultima partita a Bari. Poteva restare a casa Peppino? Il padre lo mise su un treno per la Puglia un sabato pomeriggio, e visto che non aveva ancora 17 anni raccomandò agli altri passeggeri di controllarlo per quanto possibile. All'arrivo andò a prenderlo uno zio, Procuratore del Re a Foggia, Giusto il tempo di vedere l’occhialuto Annibale Frossi segnare la doppietta che voleva dire scudetto e un incaricato di suo zio lo rimise sul treno per Milano. La mattina del lunedì Peppino era al suo banco al Liceo Berchet. In quali condizioni non si sa ma c’era.
La laurea e la fine della guerra segnano l’inizio dell’attività professionale nello studio legale paterno. Ma l’Inter diventa sempre più importante nella sua vita. Il 10 ottobre del 1949 diventa socio, su invito del braccio destro del Presidente Masseroni, un anno dopo entra nel Consiglio direttivo. Quando Prisco inizia la sua avventura di dirigente del club parte del paese è ancora sotto le macerie della guerra, Presidente del Consiglio è Alcide De Gasperi, in Italia circolano 342 mila automobili, L’Inter ha già vinto 5 scudetti e si appresta a mettere in canna la doppietta del 1953 e ‘54.
Insieme alle responsabilità cresce l’idiosincrasia verso ogni forma di rossonero, potendo ancora sfottere i malcapitati grazie alla micidiale profezia dei fratelli Hintermann la notte della fondazione del club: “finchè saremo in vita noi quelli là non vineranno più un titolo.” Prisco descrive l’origine del suo antimilanismo nel libro-intervista “Pazzo per l’Inter” “Nasce quando si è della stessa città, si è in due e le fortune dell’uno sono le sfortune dell’altro. Nasce su banchi di scuola, anche se i compagni milanisti sono tutt’altro che antipatici… Ma forse la mia acrimonia nasce anche da questo fatto: è come se uno fosse il padrone dello stabile, il vecchio signorotto che a poco a poco vede che il figlio del custode cresce, compra lo stabile o comunque arriva alla pari. Quando sono cresciuto io la rapporto tra Inter e Milan era pressappoco così” . E’ lui a nobilitare e modernizzare l’antica divisione sportiva cittadina tra bauscia e casciavit che aveva caratterizzato l’epoca della fondazione dell’Inter.
A quel punto stava per aprirsi il periodo d’oro, all’Inter arriva Angelo Moratti che conferma Prisco nel Cda nerazzurro. Il rapporto tra i due è subito positivo. L'avvocato da del “lei” al Presidente che invece gli dava del “tu”, ma solo per una forma di rispetto dovuto al massimo rappresentante della società. Il puzzle si compine quando arriva anche Helenio Herrera. Ingaggio altissimo per quei tempi e multe pagate dalla società. Non passava domenica che il Mago criticasse gli arbitri, all’epoca non c’era la squalifica ma la sanzione economica. Dopo l’ennesima multa pagata, Moratti chiamò Herrera e Prisco: “Da oggi lei non parla più dopo le partite, parla solo Prisco”. HH non gradì molto ma abbozzò.
Il Patron chiese a Prisco anche di andare in panchina quando seppe che i giocatori non avevano grande stima dell’accompagnatore precedente, considerato uno iettatore. Fu li che il rapporto con Helenio Herrera divenne ferreo e foriero di aneddoti strepitosi. Jair esordì in un Genoa Inter. All’inizio della partita il brasiliano si fece il segno della croce. L’avvocato, già in trance come in ogni partita, chiese al Mago di quale religione fosse il brasiliano. “Della mia, della mia” rispose HH. “E lei di che religione è? ” chiese Prisco . Quando si sentì rispondere “della moneta” Prisco decise di non andare più in campo.
Vinto lo scudetto nel 1963 si apriva la prima Coppa dei campioni per la società nerazzurra. Moratti affidò a Prisco (che nel frattempo, il 23 luglio del 1963 era divenuto Vice Presidente) l’incarico di rappresentante ufficiale del club a Liverpool per la gara con l’Everton. I rapporti con i giornalisti, ricevimenti, visita al Console, Prisco si sorbì tutti gli impegni ufficiali in compagnia della figlia e della moglie di Angelo Moratti, che seguivano sempre la squadra. Nel frattempo teneva d’occhio Herrera e i suoi ragazzi. “Al ricevimento ufficiale non ne potevo più: dopo aver detto le solite balle che si propinano in queste occasioni mi rivolsi con un grande sorriso al Sindaco di Liverpool e gli dissi “Mi ghe n’ho propri pienn i bal di sta’ chi, des mi me ne voo a ca’ mia, se vedum dopo”. Il Sindaco non capì un mazza ma lo salutò con un grande sorriso e Prisco se ne andò.
Al rientro in Italia, dopo lo 0 a 0, Moratti lo elogiò “A prescindere dalle battute in un milanese non purissimo, mia moglie mi ha detto che sei andato benissimo, continuerai ad andare tu finchè non sbagli.” Quell’incarico accompagnò Peppino per tutta l’epopea della grande Inter. La sua ultima presenza fu a Lisbona, nel 1967. Il Celtic chiuse l’era dell’Inter di Herrera e quella di Prisco accompagnatore internazionale.
Dalla curva non avevano ancora iniziato a cantare “Peppino Prisco facci un gol” ma lui le sue partite le vinceva di già, a modo suo. Partite vere, dell’Inter, non della squadra degli avvocati. Il 20 ottobre del 1971 iniziò una delle sue prestazioni più strepitose, una di quelle che lasciano il segno nella storia di un club. I nerazzurri erano di scena in Coppa Campioni in Germania a Moenchengladbach. L’Inter era sotto 1 a 0 quando una lattina di Coca Cola piovuta dagli spalti centrò la capoccia di Boninsegna che cadde stordito a terra. La leggenda, novellata dal Corriere dello Sport anche qualche mese fa, vuole che i giocatori tedeschi abbiano fatto sparire immediatamente il corpo del reato. Mazzola se ne accorse, si fece passare un’altra lattina dai tifosi italiani più vicini e la consegnò all’arbitro. Bonimba uscì in barella, l’Inter non c’era più con la testa, alla fine ne prese sette. Corso invece ne prese sei (giornate di squalifica) dopo aver aggredito l’arbitro. I poliziotti tedeschi furono bravissimi, arrestarono subito Manfred Kirstein il lanciatore di lattine più famoso di sempre, la giustizia tedesca lo condannò pochi giorno dopo così aiutando (e non poco) l’offensiva giudiziaria dell’Inter.
Alla fine della partita, Prisco presentò immediatamente il reclamo, pochi giorni dopo sarebbe stato il tribunale di Zurigo a decidere. La stampa italiana non credeva affatto alla possibilità che il risultato della partita potesse cambiare. Il giorno dell’udienza la Gazzetta uscì con 20 pareri giuridici, tutti contrari alla tesi del club. Il tribunale non dette la vittoria a tavolino all’Inter, ordinò la ripetizione della gara. Il risultato più infamante nella storia nerazzurra europea era stato cancellato.
La descrizione dell’udienza che Peppino fa nella sua intervista è un cioccolatino. “Al giudizio d’appello i tedeschi portarono in aula anche Netzer, il giocatore che era l’idolo della squadra, forse per sedurre uno dei componenti del giurì d’appello che si diceva fosse notoriamente sensibile a biondi argomenti. Un terreno, devo dire, che conosco proprio poco…” I giudici confermarono l’annullamento della partita, Prisco aveva trionfato e potè gongolare come non mai davanti ai giornalisti. A Milano l’Inter vinse 4 a 2 la prima partita. Nel ritorno a Berlino i tedeschi erano doppiamente furiosi, in fondo era passato solo un anno dal 4 a 3 in Messico. Prisco era diventato il bersaglio privilegiato dei tifosi del Borussia. Poteva preoccuparsi di ciò chi si era fatto 380 km nel ghiaccio russo? L’avvocato si presentò all’Olympiastadion con una sciarpa tricolore ben visibile da sotto il cappotto, soffrì lui, soffrì l’Inter ma fu 0 a 0 grazie anche al rigore parato da Bordon. La finale di Coppa Campioni aspettava ancora una volta i nerazzurri, anche se stavolta l’esito non sarebbe stato favorevole. Ecco, se vogliamo individuare il momento in cui Prisco diventa un’icona per tutto il popolo nerazzurro è proprio questo, il suo miracolo della lattina. Se prima era un dirigente stimato e benvoluto, dopo quell’episodio diventa una sorta di icona, un Santo adorato e celebrato dalla gente nerazzurra, fino a diventare parte integrante dell’inno attuale.
Anche per lui probabilmente quel passaggio è fondamentale per la maturazione del suo interismo, prima viscerale ma quasi sconosciuto al grande pubblico, poi sempre più espresso, ostentato, anche grazie ai mezzi di comunicazione che si resero conto di avere per le mani un fuoriclasse assoluto. La gente ha imparato ad amarlo non solo per la sua ironia ma soprattutto per la sua capacità di sintonizzarsi sulle onde più sensibili dei tifosi nerazzurri. Non è una deminutio dire che era come noi, era uno di noi, di certo il migliore di tutti noi.
Nessuno può aversene a male dicendo che Prisco è stato e resta l’interprete più importante dell’interismo moderno, per certi versi addirittura il fondatore di quel modo di vivere e pensare, tanto lucido e freddo nelle arringhe in tribunale quanto fazioso e passionale sugli spalti. . “Ma guarda che siamo tutti così – confessava – . Se non trovi l'ambito della trasgressione, quello nel quale puoi dar sfogo alla carica di emozionalità e magari di frustrazione che ti porti dentro, poi non ritrovi la calma e la lucidità per far bene il tuo lavoro e trattare un po' meglio le persone che ti stanno intorno e che ti vogliono bene…“.
Questo è il lato “oscuro” di ogni tifoso ma nell’ accezione più completa di interismo il tifo è una solo una delle componenti, quella esteriormente più visibile ma che non può mai considerarsi sganciata da altri fattori di cui Prisco era depositario supremo. Anche l’antimilasmo non basta da solo a spiegare, occorre mescolare il tutto con l’ostentazione della nobiltà nerazzurra a fronte della realtà da parvenu degli altri, la superiorità morale da utilizzare come scudo invalicabile per l’astio degli avversari e come medicina per le amarezze delle debacle sportive. Prisco incarna il bauscia che torna a splendere di luce propria dopo essere stato messo in soffitta negli anni post fondazione, senza tentennamenti e men che mai senza cedimenti ad autoflagellazioni. Nella sua visione del mondo a tinte nerazzurre non c’era spazio per debolezze. Si sorride degli altri, mai dell’Inter, perché l’Inter è troppo importante per farla diventare oggetto di scherno e chi non è interista faccia quel che vuole, ma è un problema suo e sapeva cosa rischiava con lui.
Prisco non è stato solo lavoro e passioni, è stato personaggio del suo tempo a 360 gradi. Nella Milano centro economico dell’Italia fu uomo di potere come testimoniano le sue presenze nei Cda di Rizzoli e Banco Ambrosiano in anni pericolosi, quando corruzione e malaffare dilagavano nel nostro paese e la magistratura cercava di capire e ricostruire. Vicende che lo sfiorarono e lo ferirono profondamente, tanto da costringerlo a lasciare la Presidenza dell’Ordine degli Avvocati quando fu coinvolto nelle indagini sul Nuovo Banco Ambrosiano. Solo un’ombra sulla sua figura, fu lo stesso Procuratore Capo della Repubblica Francesco Saverio Borrelli a riabilitarlo di fronte all’opinione pubblica: “Non l’ho mai considerato come un imputato. Ho sempre pensato che fosse una persona profondamente onesta e per bene”.
Onestà, responsabilità, passioni, ripudio di tutto ciò che fosse noioso e banale, i binari su cui è corsa la vita di Peppino Prisco sono gli stessi di quelli sui quali si è sviluppata l’avventura dell’Inter e non poteva essere che così visto che per quasi 60 anni i due hanno camminato assieme, l’uno dentro l’altra e viceversa.
Quando se ne andò, due giorni dopo aver compiuto 80 anni e 24 ore dopo aver scherzato in TV anche sulla morte, uno dei tributi più belli fu quello di un milanista che aveva condiviso con lui tante serate negli studi televisivi a menarsi a suon di sfottò, Diego Abatantuono. “I milanisti non hanno un Prisco: è la cosa che invidiavo di più all'Inter. Era unico nel suo genere e nella sua storia“.