Inter, il Veleno di Lorenzi: un limone per vincere un derby, l’aiuto a Mazzola
Se fosse stato in attività ai tempi del Mourinho nerazzurro, Benito Lorenzi sarebbe diventato la stella, l’interprete più fedele della filosofia dello Special One, l’interismo esaltato dall’accerchiamento dei nemici cui rispondere in campo e fuori, con la chiamata alle armi della squadra e del popolo nerazzurro, “uniti contro tutto e contro tutti” e vediamo che ce l’ha più lungo. Nella storia del club Lorenzi è stato ingombrante in campo come pochi altri per gli avversari, per le sue giocate, i gol e gli eccessi più disparati, quasi sempre rivolti a milanisti e juventini che ne hanno fatto condottiero odiato da questi e osannato dalla gente dell’Inter.
Già nell’origine del suo nome, Benito, era insito lo spirito ribelle del ragazzo. Glielo aveva messo il nonno, come reazione ironica al regime fascista che lo aveva costretto a chiudere la sua panetteria. In una intervista al Giornale in occasione dei suoi 80 anni Lorenzi ricordava l’episodio, “Nonno, mi hai chiamato Benito e quelli ti hanno chiuso il forno. Ma che storia è mai questa?». Incomprensibile a uno “nato per far dispetti, non per subirli”. Eventi tra l’altro che il giovane deve aver dimenticato in fretta visto che le cronache parlano della sua adesione alla Repubblica di Salò e alla X Mas. “Veleno” lo aveva soprannominato mamma Ida, per la irrequietezza che regnava nel suo Dna e perché ogni tanto rubacchiava qualche dolce nel negozio di famiglia per darli ai suoi amici.. Lei lo raccontò ai giornalisti e da quel momento il soprannome diventò il suo biglietto da visita.
Di gol ne ha fatti tanti in 11 anni di militanza interista, 138, con una specializzazione consolidatasi nel tempo a punire proprio gli estremi difensori degli avversari storici. Nel 1947 era appena arrivato dall’Empoli, divideva la residenza milanese con Enzo Bearzot e all’esordio con l’Alessandria aveva subito fatto capire di che pasta fosse fatto: espulso alla prima da titolare. Il 12 ottobre i bianconeri vice campioni d’Italia arrivano a San Siro, Lorenzi si presenta con una doppietta micidiale ed il primo episodio destinato a restare nella storia dell’Inter. Lo marcava Pietro Rava, campione olimpico nel ’36 e campione del mondo nel ’38, non proprio l’ultimo dei difensori. Benito gli fece girare la testa fino a fargli perdere il lume degli occhi. Durante un’ interruzione del gioco il terzino bianconero gli si avvicinò e gli mollò un cazzotto che doveva essere destinato sul naso del toscanaccio di Borgo a Buggiano. Veleno fece in tempo a schivarlo, il gancio colpì il centravanti interista Quaresima che andò KO per diversi minuti. Quando si riprese chiese se erano tornate le bombe.
L’anno dopo l’Inter passa al comunale con un gol di Amadei servito al bacio da Lorenzi, anche quel giorno protagonista assoluto. Nel novembre del ’49 Juventus Inter vale la testa della classifica, Wilkes subito in gol, pareggio di Hansen e poi ancora Lorenzi a far precipitare i torinesi nello sconforto. Per poco a dire la verità, i bianconeri reagirono alla grande e completarono la rimonta nella ripresa. Nel ’51-52 un 3 a 2 per parte, un gol all’andata ed uno al ritorno per Lorenzi. L’Inter si stava avvicinando alla doppietta del ‘53 e ’54, Veleno è il vero architetto di quegli scudetti, il primo dei quali arriva soprattutto grazie al 2 a 0 agli juventini nel ritorno, Lorenzi naturalmente a segno anche quella volta.
Se ai bianconeri ha regalato gol a grappoli, al Milan altrettanto (8 gol) aggiungendo forse la perla più indimenticabile della sua carriera, quella per la quale è ancora ricordato dai suoi tifosi ma soprattutto da quelli rossoneri. Ma andiamo per ordine. Negli anni ’50 il derby era il fulcro della stagione per le milanesi, forse più di oggi. In una intervista del 2002 a Repubblica, Lorenzi ricordava che nei giorni immediatamente precedenti la stracittadina i tifosi lo chiamavano a casa per incitarlo. Grandi rivalità ma sempre nel limite dello sport, “con Carletto Annovazzi, difensore del Milan e mio grandissimo amico, prendevo il caffè nell' intervallo”. Nel ’49 va in scena uno dei derby più incredibili della storia. I rossoneri vanno subito avanti di due con una doppietta di Candiani, Nyers riapre le speranze, ma quando Nordahl e Liedholm fissano il 4 a 1 per il Milan il crollo sembra segnato. Sembra, perché prima dell’intervallo Amadei e ancora Nyers riportano un raggio di sole sopra la parte nerazzurra di San Siro, che diventa solleone d’agosto nella ripresa quando ancora Amadei e poi Veleno fanno 5 a 4 per l’Inter. Basterebbe così per invocare il defibrillatore ma c’è ancora tempo per il pareggio milanista di Annovazzi ed il gol del trionfo finale nerazzurro con la tripletta di Amadei. Il sindaco milanese Greppi, dichiaratamente interista, aveva lasciato lo stadio sull’1 a 4 per i cugini. Arriva a casa, sente alla radio la rimonta e sul 4 a 4 si ripresenta a San Siro annunciando trionfalmente “sono tornato perché vinceremo”. Veleno ricorda il magic moment di quel pomeriggio “ io parto centravanti e Amedeo Amadei, un po' indisposto, all' ala. Sul' 1 a 4 dico ad Amedeo: vai in mezzo, il tuo posto è lì. Lui va in mezzo e segna tre gol uno più bello dell' altro”.
Nel 1952 gioca la stracittadina in pessime condizioni fisiche. Durante un volo con la nazionale la cabina ha dei difetti alla tenuta e lui si becca un’otite che gli offenderà l’orecchio destro fino alla fine dei suoi giorni. Nonostante tutto va in campo per segnare uno dei gol più belli della sua carriera, stop di petto in area e girata all’incrocio dei pali di Buffon.
Ora che la suspance dovrebbe essere al punto giusto arriviamo al punto più alto della velenosità di Lorenzi. Il 6 ottobre 1957 l’Inter è avanti 1 a 0 sui rossoneri a 30 secondi dalla fine, molti stavano già lasciando San Siro, la partita era finita. Per tutti ma non per il sig.Lo Bello che trova il tempo per fischiare un rigore per il Milan. Pandemonio in campo, i nerazzurri accerchiano l’arbitro, i milanisti gli fanno scudo. Solo due restano fuori dalla calca, Cucchiaroni che va a sistemare la palla sul dischetto e Lorenzi che si avvicina alla panchina per chiedere da bere. Il massaggiatore gli allunga l’unica cosa che gli è rimasto, mezzo limone. Lorenzi succhia ma…
“Che cos'è il genio?” si chiedeva il Perozzi nel mitico Amici miei. “È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione.” Ecco qua dunque, Lorenzi mette la buccia del mezzo limone sotto il pallone già sistemato sul dischetto. Qualcuno dalle tribune se ne accorge, in campo, incredibilmente, nessuno, nonostante dagli spalti arrivino urla di avvertimento. Cucchiaroni tira il rigore, la palla finisce ampiamente a lato, Lo Bello fischia la fine e inizia la caccia all’uomo, alcuni tifosi milanisti riescono ad entrare in campo. Il loro intento dichiarato è quello di menare Lorenzi, il quale nel frattempo era già riparato frettolosamente negli spogliatoi.
Veleno, che aveva una solida formazione cattolica alle spalle, sentì il peso di quella trovata tanto da andare a confessarla ad un sacerdote. Trovò un prete interista che si mise a ridere e lo assolse con formula piena ritenendo che il “reato non sussiste”. Qualche tempo ne fece cenno anche al Cardinal Martini durante un colloquio privato. All’Eminenza milanese Veleno spiegò la sua fede così “il corpo peccava, lo spirito rimaneva negli spogliatoi”.
Tutto qua l’uomo Lorenzi? Solo gol e genialate? No, tutt’altro, era uomo di bontà e generosità uniche nel mondo del calcio. Quando il grande Torino scomparve a Superga, Sandro e Ferruccio Mazzola vivevano momenti di enorme difficoltà a causa di complesse vicende familiari lasciate aperte dalla scomparsa di Valentino. Fu proprio Lorenzi a farsi avanti con i familiari dei 2 ragazzi, a prendersi cura di loro, ad avviarli entrambi al calcio. Sandrino ricorda spesso della grande importanza della presenza di Benito per lui e per Ferruccio in quei momenti. “Benito era perfido in campo, quanto un pezzo di pane nella vita. Sapeva che se avesse fatto del bene, allora Dio l’avrebbe ricompensato. Fece di me e Ferruccio le mascotte dell’Inter, così dal cielo gli arrivarono due scudetti di fila”. E tutto questo anche in ricordo di Valentino, che si era speso più di una volta con i CT azzurri per farlo convocare in nazionale superando le riottosità dovute all’estro del personaggio e, probabilmente, anche alle sue idee politiche.
Generosità dimostrata anche in campo. Ci sono diverse fotografie che lo riprendono acciaccato, ferito alla testa, con il sangue che gli cola giù dalla ferita e lui che resta a battagliare con le difese avversarie. Massimo Moratti, parlando di lui in una intervista al Corriere della Sera nel 2019, lo ricordava come “un interista “dentro” come pochi.” Sul finire di carriera, nel 1958, andò all’Alessandria. Una domenica si giocava Alessandria-Inter. Su un calcio d’angolo, anziché gettarsi sul pallone come abitudine, Lorenzi rimase fermo. Il pallone gli rimbalzò sulla testa e andò in rete. Lui corse disperato dall’arbitro per spiegare, mentendo, che il gol era da annullare poiché aveva toccato la palla con una mano…”.
Leo Turrini ha scritto che Lorenzi era l’anima contadina dell’Inter bicampione nel 1953 e ’54, per lui il rettangolo verde diventata ogni domenica un campo di battaglia sul quale onorare la maglia che aveva sulle spalle. Per questo la gente nerazzurra lo ha amato alla follia. E poco male se per arrivare alla vittoria usasse anche metodi non previsti dal regolamento. Più di una volta riuscì a liberarsi dei difensori avversari più tignosi con una vigorosa strizzata alle balle dell’avversario che restava, per così dire, senza fiato, L’arbitro non vedeva e Veleno andava in porta.
Con Nyers e Skoglund formò un trio d’attacco leggendario e non solo in campo. Lo svedese ad esempio, talento sopraffino come riconobbero anche Pelè ed i brasiliani dopo averlo battuto nella finale mondiale del 1958, fu il primo a capire che Milano era da bere già a quei tempi. Le sue nottate brave tra signorine gentili e alcool trovavano riscontro negli allenamenti del giorno dopo non propriamente sobri ed intensi. Anche Nyers non era uno stinco di santo. Il presidente Masseroni lo mise fuori squadra a causa delle richieste economiche esose e ripetute. Appena riaggregato lo ricompensò con tripletta nel derby del ’53, l’ultimo da lui disputato in nerazzurro. Apolide per motivi politici, zingaro come Helenio Herrera che lo vide per la prima volta nel ’46 giocare con la nazionale ungherese a Parigi innamorandosi seduta stante del suo talento.
Anche Nyers conobbe l’ira di Lorenzi sulla sua pelle. In una partita contro la Fiorentina sbagliò un gol clamoroso. Veleno lo colpì con un pugno, l’ungherese fece il gesto di allontanarsi dal campo. “Rientra che i conti li facciamo dopo” gli urlò il compagno assatanato . Nyers, non se lo fece ripetere, qualche minuto dopo segnò con una incornata delle sue e rincorse Lorenzi per restituirgli il favore.
Non solo i comportamenti, la lingua di Benito sapeva far male, come quella di tutti i toscanacci. La provocazione era nel suo Dna, specialmente quando si trovava faccia a faccia con gli juventini. Ne sapeva qualcosa Giampiero Boniperti, rivale bianconero di mille battaglie, soprannominato “Marisa” proprio dal nerazzurro per i suoi boccoli biondi. Il futuro presidente bianconera non gradiva per niente ma ormai il danno era fatto, per i tifosi avversari restò Marisa per sempre. Per provocare John Charles invece gli riferiva che la Regina d’Inghilterra era una donna di facili costumi, asserzione rintuzzata dal gigante buono bianconero con un elegante “e che me frega della Regina, io sono gallese”.
Lorenzi modello di interismo dunque? A modo suo si, lo ha dimostrato durante tutta la sua carriera. Ma l’episodio più convincente a questo riguardo è di tutt’altra natura rispetto alle bravate provocatorie. Lo ha ricordato Gianfelice Facchetti in una intervista a Tuttosport di qualche tempo fa. “Nel 1951, 2 anni dopo Superga, alla penultima giornata l’Inter giocò a Torino contro i granata. Se avessero perso sarebbero retrocessi in B, mentre se avesse perso l’Inter, lo scudetto sarebbe andato manco a dirlo al Milan. E Benito Lorenzi, il grande attaccante dell’Inter che intanto era diventato come un papà per Sandro Mazzola, dopo la scomparsa del suo caro amico Valentino, non si sentì di condannare il Toro. Si racconta che non si impegnò alla morte, che commise errori incredibili davanti alla porta. Così l’Inter perse 2-1 e poi perse lo scudetto. Mentre il Torino si salvo in extremis in quel modo. Perché vincere non è l’unica cosa che conta: nello sport, ma a maggior ragione nella vita. Altri valori sono ben più importanti. E non c’è bisogno di essere per forza dell’Inter o del Toro per capirlo, per avere e nutrire questa visione etica dell’esistenza”.