Inter Juve iniziava, lui era al bordello: Meazza, tra mito e lettere anonime

«Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario» (Gianni Brera)

 

Inter Juventus era la partita dell’anno già nel 1937. I nerazzurri erano nello spogliatoio, qualcuno si allacciava le scarpe, altri già saltellavano in attesa della chiamata dell’arbitro per andare in campo. Mancava qualcuno però. “Dov’è Meazza?” chiese un giocatore. Già, dov’è Meazza? Mentre il panico si diffonde, un dirigente salta in macchina e sgomma via. Lui sa dove trovarlo, un bordello nel centro di Milano, casa chiusa, casino, chiamatelo come meglio vi aggrada. Appena entra,  la maitresse capisce e gli fa un cenno, è di sopra. Meazza è li da due ore, in quelle circostanze e tra quelle braccia (e non solo) il tempo vola. “C’è la partita Peppin andiamo…Azzz, che ore sono?”  Si rivestì in calma, in auto si cambiò e fece pure il riscaldamento. Poi entrò in campo, fece una doppietta anche lì e trascinò l’Inter alla vittoria.  I Balotelli di oggi al confronto sono delle educande, ma a differenza degli sregolati odierni Meazza  aveva capito che lui si poteva permettere tutto perché era il migliore.

Per Mario Sconcerti “probabilmente è stato il miglior calciatore italiano di tutti i tempi” ma quando morì, il 21 agosto del 1979, quasi nessuno si ricordò di lui se non l’Inter ed i pochi ancora vivi che avevano giocato con lui o che lo avevano visto giocare. E’ stato il destino di chi ha calcato i campi di calcio prima delle televisioni, prima che la comunicazione trasformasse ragazzotti  di talento cristallino con il  pallone  tra i piedi in protagonisti degli schermi e della vita, eroi della gente ammirati ed invidiati.

Eppure Giuseppe Meazza era stato davvero il più grande di tutti. Se davvero esiste un olimpo del calcio lui sta li, insieme a Pelè, a Maradona, a Di Stefano, a  Crujiff e a pochi altri, la sua dimensione era quella degli eterni , di coloro che lasciano un segno indelebile dopo di loro.

Quando da piccolo giocava con una palla di stracci tra Porta Romana e Porta Vittoria , un signore rimase colpito dai suoi movimenti. Volle regalargli i primi scarpini, costavano quanto tre stipendi. La mamma acconsentì, lei faceva la verduraia, di soldi non ce n’erano molti dopo la morte del papà nella prima guerra mondiale.  Peppino sognava il Milan. Riuscì a farsi chiamare per un provino ma il fisico del ragazzino ancora imberbe  non solleticò la fantasia dei rossoneri.  Ci pensarono i dissidenti nerazzurri a  dargli spazio, in cambio dei pasti per tutta la famiglia. All’inizio lo mettono  in difesa, anche se non aveva né la stazza né i piedi del randellatore. Aveva un ammiratore segreto ma interessato, Fulvio Bernardini, che restava ore a guardare le giovanili nerazzurre ammaliato dalle giocate di quel ragazzino. Lo segnalò ad Arpad Weisz che capì al volo. Quando lo mandò in campo nel suo ruolo naturale per la prima volta con la prima squadra, Lepoldo Conti,  uno degli anziani se ne uscì con una battuta che avrebbe segnato Peppino per la vita. “Adesso facciamo giocare i Balilla disse sarcastico ironizzando sui 17 anni di Meazza. Il quale andò in campo contro la US Milanese, segnò una tripletta  assicurandosi  il soprannome  a vita e anche il posto in squadra, spodestando un altro suo ammiratore della prim’ora, Zizì Cevenini, costretto dall’esplosione del Balilla  ad emigrare alla Juventus. A fine gara Conti lo prese sottobraccio “Sei in gamba Balilla”. La settimana successiva fu il malcapitato portiere del Novara a capire chi aveva davanti, dopo averne raccolti 8 in fondo alla rete “Quel ragazzino non è un centravanti, è un demonio”.

Inizia così una storia che alla fine parlerà  di tre scudetti, 367 presenze nell’Inter e  soprattutto 216 gol, cifra che gli consente  ancora di guardare dall’alto al basso chiunque abbia vestito quella maglia. Oltre a due titoli mondiali con la nazionale azzurra che legati indissolubilmente alla sua classe. Molti di quei gol portano il marchio di fabbrica di Meazza, l‘invito al portiere avversario ad uscire, il dribbling elegante per evitarlo e la palla nella porta vuota. Luigi Garlando nel suo “Ora sei una stella. Il romanzo dell’Inter” descrive uno di questi momenti. “Si fermava davanti al portiere, lo invitava a uscire, come il torero col drappo rosso in pugno: Aca toro! Il portiere usciva dai pali, il Peppino lo aggirava e metteva il pallone in rete. Un giorno lo ha fatto per ben tre volte col portiere della Roma, Ballante: tre gol. La quarta volta il guardiano è rimasto inchiodato sulla linea di porta. Il Peppino allora ha fatto qualche passo avanti e ha messo in rete senza problemi. Ballante ha festeggiato col gesto dell’ombrello: Tiè! Meazza gli ha fatto notare: Guarda che il pallone è entrato. Lo so – ha risposto il numero uno giallorosso – Però stavolta non mi hai fregato. Non sono uscito!”

Mario Fossati, in una intervista su Repubblica di qualche anno fa lo ricorda come “una luce sul campo,  lanci di trenta metri, pallone che cadeva perfettamente davanti al compagno, pronto da giocare. Negli allenamenti del giovedì piazzava una berretta col pon-pon sulla traversa, tirava da fuori area e nove volte su dieci la spazzava via. Diceva Gipo Viani che un passaggio di Meazza arrivava prima e aspettava solo di essere calciato. Era un leader”.

 

La popolarità arriva velocemente, radio, giornali, cinema si accorgono di lui, e pure il Duce. Sempre agghindato e impomatato al punto giusto, perfetto ballerino di tango,  l’eleganza ed il fascino alla Rodolfo Valentino del campione sfondano i cuori delle più belle ed i cancelli della notorietà,  diventa divo anche fuori dal campo.  Non ha la 10 nerazzurra sulle spalle ma i volteggi nelle sale da ballo o da biliardo somigliano molto ai dribbling per mettere a sedere i portieri, diventa personaggio a 360 gradi, professionista esemplare ma anche uomo di mondo, è la prima vera star del calcio italiano. Un  suo compagno ai tempi della Juventus, Pietro Rava, lo descrisse così: “Un vagabondo mezzo matto e un puttaniere, nel senso che adorava le donne e lo dovevamo controllare perché non scappasse dal ritiro. Difficile stabilire se abbia conquistato più ragazze o segnato più reti”.

Anche Mussolini gli aveva messo gli occhi addosso. Non per gli stessi motivi delle tifose ma perché aveva capito che Meazza sarebbe diventato uno dei volti vincenti del fascismo, uno di quei personaggi su cui fondare l’immagine di un’Italia destinata a dominare il mondo. D’altronde i successi mondiali con la Nazionale nel 1934 e 1938 ne avevano fatto un nuovo Cesare dell’impero calcistico. Il Duce provò anche a portarlo a Roma, nella Lazio, ma inutilmente. L’attaccamento di Meazza alla sua Milano era più forte di ogni richiamo e poi… viveur si ma non sprovveduto, con lucida intelligenza si tenne sempre fuori dalla diatriba politica, “riuscì a non diventare un simbolo del regime pur senza metterselo contro. Lui era Meazza, il grande campione, la politica era un’altra cosa” ha raccontato il nipote Federico in una recente intervista”.

Le pagine più belle dell’epopea di Meazza sono raccontate dalla storia della Nazionale.

 Il regime fascista aveva annusato che i mondiali avrebbero dato lustro e visibilità e fece di tutto per assicurarsi il torneo del 1934. Quando il Presidente della Federazione dell’epoca si trovò di fronte il Duce poco prima dell’inizio del mondiale,  ebbe una battuta poco felice: “Speriamo di vincerlo” disse. La risposta fu quanto di più mussoliniano si possa immaginare “ Come speriamo, il mondiale si vince, si o si”. Meazza fu protagonista di quel torneo, a lui è legato il successo  nella ripetizione del quarto di finale con la Spagna dopo l’1 a 1  del primo incontro. Ma non erano tutte rose e fiori per i numeri 10, neanche allora. Nello specifico c’era chi non vedeva di buon occhio il fisico non propriamente prorompente del  nerazzurro. 3 anni prima  l’Italia  era andata a giocare una finale di un torneo internazionale a Budapest, in casa dell’Ungheria che in quel momento dettava legge in Europa. Poco prima della partita al CT azzurro Vittorio Pozzo arrivò una lettera anonima di questo tenore:: «Caro Pozzo, siete un pazzo se volete portare Meazza in Ungheria: è un soldo di cacio e gli ungheresi se lo mangeranno in un boccone, lasciatelo crescere!».  Pozzo se ne fregò alla grande, portò il suo ragazzo in Ungheria e lui lo ricompensò con una tripletta nel 5 a 0 per gli azzurri.

Dall’alto del suo snobbismo, l’Inghilterra non aveva partecipato al mondiale italiano del 1934. Il titolo mondiale conquistato a Roma aveva un vulnus che il regime non tollerava, gli azzurri avrebbero battuto anche i rappresentanti della perfida Albione e dovevano dimostrarlo. L’occasione arrivò con l’amichevole del 14 novembre 1934, quando nacque la leggende dei “leoni di Highbury”.

Dopo poco più di un quarto d’ora gli inglesi erano già sul 3 a 0.Le cronache riportano che nell’intervallo fu Attilio Ferraris, laziale de Roma, ad anticipare di qualche decennio Alberto Sordi ed il suo Presidente del Borgorosso F.C.“Chi desiste dalla lotta è ‘n gran fijo de ‘na mignotta!” . Gli azzurri tornarono in campo con quell’urlo di guerra in testa. Meazza mise a sedere due volte il portiere inglese e nel finale prese la traversa del possibile 3 a 3. Gli spettatori inglesi restarono increduli di fronte a tanto coraggio fino ad applaudire a scena aperta gli azzurri a fine partita.

Il 1938 è l’anno dell’episodio più incredibile della carriera di Meazza. Nel mondiale francese gli azzurri vivono e giocano in un  clima ostico fomentato dagli antifascisti francesi. Gli azzurri faticano con la Norvegia, Pozzo non si capacita. Ci pensa Peppin a schiarirgli le idee: “ Signor allenatore, il problema della squadra è l’astinenza, siamo alpini vigorosi e ogni tanto abbiamo bisogno di divertirci”  Il tecnico ci pensò un po’ su, poi dette il permesso alla squadra di una uscita per un bordello di buon livello li nei pressi. Seguì  il 3 a 1 ai padrini di casa che fece scrive e a Gianni Brera “l’atto naturale riconcilia i nostri prodi con la vita e con il mondiale”.

Poi il Brasile a Marsiglia per la semifinale.I dirigenti carioca avevano avvertito i loro colleghi italiani che non avrebbero ceduto i loro posti sull’aereo diretto a Parigi nel caso (per loro del tutto impossibile) di sconfitta. Meazza  rispose da par suo a quella provocazione, da solo mise in crisi l’intero sistema difensivo sudamericano fino al momento topico del rigore assegnato nella ripresa agli azzurri sull’ 1 a 0 per loro, il passaporto per la finale. Meazza va sul dischetto,  mentre prende la rincorsa l’elastico dei suoi pantaloncini cede di schianto. Poteva fermarsi o battere in mutande? Peppin si strinse l’indumento con la mano, calciò e fece secco il portiere brasiliano.

Anche per gli Dei arrivano i giorni tristi. Nel 1939 un incidente che sembra banale si rivela micidiale, gli si chiudono i vasi sanguigni di una gamba, in gergo medico  malattia del piede gelato. Resta fuori dal campo per un anno e quando torna c’è la sorpresa. Non rientra alla sua Arena ma sull’erba di San Siro e con la maglia del Milan. Un biennio che sancisce l’inizio della fine. Meazza non è più il fulmine di guerra di prima, nell’aria non risuonava più la canzone che lo aveva accompagnato per un decennio “ogni ragazza va pazza per Meazza”.  Poi un anno alla Juventus, per la quale firma il contratto disteso sul prato del Comunale torinese al termine di un allenamento. Esordì in bianconero in un brutto derby nel quale apparve un lontano parente del dominatore che fu. Segnò qualche gol, fino al rovescione dell’ultima di campionato con i bianconeri umiliati in casa dal Vicenza per 6 a 2.  Era l’ultima domenica prima della guerra.

Riuscì a dare una mano una volta ancora alla sua Inter, quando nel dopoguerra il Presidente Masseroni lo chiamò al capezzale di una squadra sull’orlo della retrocessione. Due gol a Bari e Triestina segnarono le sue ultime apparizioni sui campi da calcio. Ci tornò solo per occupare la panchina nerazzurra in un paio di occasioni ma lui il calcio lo aveva dentro, non sulla bocca, spiegarlo agli altri non era come giocare.

Quando divenne responsabile delle giovanili nerazzurre, Meazza per incoraggiare i suoi prima di un derby scese negli spogliatoi:”Nella mia carriera sono sempre stato corretto, non ho mai fatto male a nessuno. Ma….ho un'unica macchia sulla coscienza che vi chiedo di aiutarmi a cancellare” “Quale Mister?” “Ho giocato nel Milan. E questo è un tradimento”.

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Giacomo Beretta