Il giorno dopo è ancora più bello, un derby che significa primato con una qualche distanza di sicurezza, che distrugge le certezze dei rossoneri già minate da La Spezia e Stella Rossa, che manda un segnale forte ed inequivocabile al campionato: l’Inter c’è!.
Nel momento più duro della stagione, quando il calendario ha messo in fila gli scontri diretti con Lazio e Milan (con la semifinale di coppa Italia con la Juve nel mezzo), l’Inter ha alzato la voce non solo per i 6 punti ma soprattutto per le modalità con cui sono arrivati i due successi. 180 minuti finalmente privi degli alti e bassi che avevano caratterizzato tutta la prima parte della stagione, partite vissute come montagne russe anche con avversari di qualità decisamente inferiore. Ovviamente non è un caso. E’ il frutto del processo sempre richiamato da Antonio Conte? Per molti versi si e gli va dato atto, prima di tutto di aver mantenuto la squadra al riparo dalle polemiche legate all’ incertezza della vicenda societaria, un mare tempestoso che rischiava di rovesciare barche ben più temprate di quella nerazzurra. La crescita di Barella e Bastoni è evidente a tutti e anche questo deve essere ascritto a merito del mister, così come la sicurezza che il fenomeno Hakimi (22 anni, mai dimenticare) sta maturando step by step.
Dopo di che ci sono altri fattori di cui tener conto. E’ chiaro che l’Inter impegnata in Coppa Italia con Milan e Juventus e in campionato con Lazio e nel derby è solo lontana parente di quella vista in azione fino alla sosta natalizia. Prima una squadra che cercava il possesso anche e soprattutto nella metà campo avversaria ricavandone tanto possesso ma poco costrutto, una difesa alta e poco protetta da un centrocampo “di lotta”, ricco più di muscoli che di talento nei piedi, una fascia sinistra che spesso si trasformava in autostrada per gli esterni avversari.
Oggi invece una squadra che sa stare bassa per ma che riesce a leggere i momenti per andare a pressare gli avversari fin nella propria area, e, soprattutto, con una zona centrale arricchita dalla “scoperta “di Eriksen e Perisic resuscitato dalla responsabilità di coprire nella doppia fase la fascia sinistra.
E allora non possono non tornare alla memoria le parole di Marotta del 23 dicembre, prima della trasferta a Verona, quando annunciava che Eriksen era in via d’uscita perché “non funzionale, ormai è un dato oggettivo”. Il Principino danese non era funzionale a quel centrocampo, a quella squadra impostata come in quelle settimane, oggi invece, con un assetto ed una mentalità completamente diversi non solo funzionale ma valore aggiunto. E non solo per il talento suo (su cui solo i miopi si attardavano in discussioni) ma anche e soprattutto per quello dei suoi compagni di reparto che il suo modo di giocare riesce ad esaltare. Alzi la mano chi non ha notato che il Brozovic visto negli ultimi 20 giorni sembra il fratello rigenerato di quello visto recentemente, mentre Barella si trova ora liberato dalla necessità di correre a perdifiato a coprire i vuoti lasciati dai Vidal e Gagliardini di turno. Ieri sera in Tv è stato possibile sentire perfino complimenti alla sua fase difensiva, fatta non di randellate ma di capacità di posizionamento.
Sembra strano, ma ripensando alle parole di Marotta, tutta ‘sta roba, tutte queste capacità Eriksen le avrebbe dimostrate tutte nell’ultimo mese anzichè negli 11 mesi precedenti. Per il bene della patria facciamo finta di crederci e passiamo oltre.
Su Perisic il discorso è diverso, la sua discontinuità ha rappresentato la disperazione dei 60 mila che tanto tempo fa frequentavano gli spalti di San Siro, smoccolando a più non posso proprio perché le sue qualità erano ben conosciute, anche se tenute spesso ben nascoste. Le due prestazioni sfornate contro Lazio e Milan, di fronte ad avversari di ottimo spessore tecnico e gamba veloce come Lazzari, Calabria e talvolta pure il tanto osannato Hernandez, hanno sorpreso per intensità, applicazione e qualità delle giocate. Durerà? Con Ivan mai dire mai, se proseguisse su questa strada Conte avrebbe un’altra medaglia da appuntarsi sul petto.
C’è un ultimo elemento di cui occorre tener conto, il fattore tempo. Quello impiegato da Conte a cambiare l’atteggiamento di una squadra che su quella strada sbagliata aveva già lasciato intravedere black out paurosi anche contro avversari chiaramente inferiori, quello impiegato da Conte ad inserire Eriksen non per tre minuti da tre quartista ma per novanta nella sua posizione naturale di interno.
Il mister ha dimostrato che la sua supposta rigidità non era tale da impedirgli di cambiare. Lo ha fatto, i risultati si vedono ora e ciò va apprezzato ma chi ha tempo non perda tempo, recita il proverbio. In quel tempo passato l’Inter ha lasciato per strada in maniera sanguinosa una qualificazione agli ottavi di Champions in un girone ampiamente alla portata dei nerazzurri che avrebbe portato montagne di soldi, visibilità, prestigio e magari anche un sorteggio favorevole. Il prossimo tempo si annuncia senza dubbio migliore, se il binomio mentalità-continuità non subirà cali di intensità.