Leader. Nessun altra parola definisce meglio quello che è stato Lothar Matthaus, né fuoriclasse, né tuttocampista, forse neanche tedesco. Dal lato tecnico, un giocatore porta in campo i frutti del suo talento uniti a quelli dell’allenamento, del suo regime di vita, della sua professionalità. La leadership no, non l’alleni, o ce l’hai nel sangue o sei uno dei tanti. Non solo leader, ma leader incontrastato, perché quando in un gruppo c’è uno come Lothar non sono ammesse repliche o controfigure, il dominus è uno solo, o si mangia la sua minestra o si salta dalla finestra.
Poi anche uno come lui si trova a fare i conti con l’ultra terreno, quella che Carlo Nesti chiama la “Tyche” (la sorte per gli antichi greci) che si para davanti solo ai più forti per evitare che possano sentirsi simili agli dei, belli e invincibili. “Una forza astratta che indistintamente si abbatteva nel bene o nel male nella vita di ogni uomo. Qualcosa di imprevedibile, cui era legato in maniera imprescindibile il “destino” di ogni essere umano”.
Matthaus nella sua carriera ha vinto tutto, 7 campionati tedeschi, 3 coppe di Germania, 3 coppe di lega tedesche, una supercoppa di Germania, 2 coppe Uefa, 1 campionato italiano, 1 supercoppa italiana, il Campionato del Mondo del 1990, l’Europeo del 1980 il Pallone d’oro sempre nel 1990. Occorre tornare alla “Tyche” greca per spiegare come in mezzo a questo campo minato di vittorie manchi la Champions, negatagli due volte in circostanze molto simili. Nel 1987 da personaggi che bibilicamente e calcisticamente non hanno niente a che vedere con la sua statura, due che hanno avuto a che fare con l’Inter in maniera molto diversa da Lothar. Il “tacco di Allah” Madjer doveva vestire la maglia nerazzurra dopo la riapertura delle frontiere, ma un problema fisico lo bloccò alle visite mediche ed il trasferimento saltò. E poi Juary, ala dell’Avellino e poi dell’Inter nel 1982, rimasto indimenticabile solo per la danza intorno alla bandierina con cui festeggiava i suoi gol. Furono questi due carneadi del Porto a rovesciare in 3 minuti, tra il 77mo e l’80mo, una finale che stava portando la coppa più bella a Monaco dopo il vantaggio acquisito nel primo tempo.
Ma ancor più malevola fu la sorte nel 1999, nella sua seconda vita al Bayern, quando il vecchio condottiero ormai al tramonto di una carriera straordinaria riuscì a tornare in finale. Anche al Camp Nou il Bayern andò subito avanti. Il Manchester United pressava ma senza costruire grandi pericoli, anzi furono proprio i tedeschi a sfiorare il 2 a 0 con un palo di Sholl a portiere battuto. Al 90mo, quando Collina indicò il recupero, Matthaus si vedeva già con la coppa in mano. Ma aveva fatto i conti senza la “Tyche”, che apparve a Barcellona nelle vesti di Sheringam e Solskiaer, attaccanti mandati in campo solo per la disperazione di Alex Ferguson. Furono proprio loro due, nei tre minuti di recupero più micidiali del calcio europeo, ad invertire la strada di quella Champions.
La sorte si era presa la sua rivincita finale su quel semidio vestito da calciatore. Carlo Nesti finisce il suo racconto di quella sera con questo flash: “Fu struggente il momento della premiazione con il numero 10 del Bayern che si sfilò immediatamente quella medaglia, quasi a rinnegare la sua presenza in quel momento al Camp Nou, o forse più probabilmente aspettava il momento in cui avrebbe incontrato ancora una volta la “Tyche” per consegnargli ciò che gli spettava.”
Fin dai tempi del Gladbach, quando aveva 20 anni o poco più, suscitava un solo sentimento in chi lo vedeva giocare: ammirazione, una libidine vera per gli occhi di chi ama il calcio. Devastante nell’interdizione, spettacolare nei lanci, l’immagine della potenza pura da scaricare nelle sue incursioni verso la porta avversaria e nel tiro che spaccava tutto e tutti. Era già un Kaiser ma i Kaiser non giocano in Renania, di solito stanno nel Bayern. A fine stagione 1984 a Mönchengladbach si seppe che Lothar era in procinto di trasferirsi a Monaco di Baviera. Heynckes, infuriato per l’annuncio, lo lasciò in panchina a Mannheim, fino a 20 minuti dalla fine quando erano sotto 2 a 1. A quel punto non potè fare a meno di mandarlo in campo. Matthaus salutò il suo mister ed il suo Borussia con una doppietta strepitosa.
Gli anni bavaresi segnano la sua consacrazione, il Bayern torna a vincere il campionato dopo tre anni di digiuno, Lothar è addirittura capocannoniere con 16 gol. La Germania era abituata ad avere il Kaiser in campo (Beckenbauer), al mondiale del 1986 era invece sulla panca tedesca. Il boss della squadra era Rummenigge ma il nuovo Kaiser stava nascendo. Vide la luce all’87mo dell’ottavo di finale contro il Marocco, quando su una punizione dal limite Matthaus fece segno a Kalle di scansarsi. Era roba sua, responsabilità sua. Quel gol permise ai teutonici di proseguire il cammino mondiale fino alla finale, dove si trovarono davanti l’armata albicelste di Maradona. Lothar fu destinato a limitarne il raggio d’azione e la pericolosità. La Germania soffrì la mancanza delle sue incursioni, Maradona non segnò ma inventò il tracciante per mettere Burruchaga in condizione di segnare il 3 a 2 finale.
Parlando di Matthaus, El Pibe de oro disse in quel periodo “il miglior avversario che abbia avuto in tutta la mia carriera, credo che basti questo per definirlo .”. Non furono parole di circostanza.
Fu proprio Matthaus a confermarlo, qualche anno dopo in una intervista “Nel 1987, Diego spedì tre-quattro persone a casa mia, a Monaco. Era un sabato pomeriggio, e questi signori mi portarono una valigetta piena di denaro. Erano un milione di marchi, perché io firmassi con il Napoli. Non erano i soldi dello stipendio, ma una specie di premio solo perché io accettassi il trasferimento. Ci sarebbero voluti molti anni affinché io potessi guadagnare quella cifra in Germania, eppure riuscii a dire di no a quel denaro. Non ero ancora sicuro al 100% di voler lasciare il Bayern, quindi aspettai, e un anno dopo finii all’Inter.”
A Milano arriva nel 1988: ad accoglierlo il Milan degli olandesi, la Samp di Vialli e Mancini, la viola di Baggio, il Napoli di Maradona, la Juve di Laudrup. La prima cosa che fece appena arrivato all’Inter fu chiedere alla dirigenza di portare subito anche Andy Brehme. Nasceva l’Inter dei tedeschi, un’orchestra con Zenga, il miglior portiere del mondo tra i pali, due terzini che si completavano a meraviglia, Bergomi più difensore Brehme ad arare la fascia sinistra e mettere in mezzo cross che ancora San Siro rimpiange, Ferri mastino implacabile, Mandorlini appena staccato per fare pulizia di ogni pallone gli capitasse a tiro, Matteoli a dare tempi e lucidità Berti e Bianchi ai lati davanti, entrambi capaci di accentrarsi ,Lothar a dettare legge e Serena pronto a diventare capocannoniere. San Siro lo adottò immediatamente, ne fece il condottiero morale e lui li ripagò con anni di bellezza straripante. Trapattoni trovò un leader, un uomo orgoglioso fino all’eccesso. Il mister della squadra dei record ricordava in una intervista del 2016 un episodio significativo: “Una volta durante l'intevallo gli urlai contro. “Ma lo vuoi capire che non ti devi muovere da lì o prendiamo gol?”. Lui scoppiò a piangere, si levò la maglietta e mi disse che non avrebbe più giocato. Era un tipo molto orgoglioso. Mandai fuori tutti gli altri giocatori e gli dissi che mi dispiaceva, che era il più forte di tutti. Tornò in campo , quella partita la vinse quasi da solo”.
Lo stesso orgoglio che faceva sudare freddo anche i compagni. Trasferta in Emilia: qualcuno si azzardò a dire che il pareggio in trasferta era un risultato accettabile. Lothar guardò il suo interlocutore di traverso: “Pareccio? Occi vinciamo quattro a zero”. Si sbagliava, a Bologna quel pomeriggio fini 6 a 0 per i nerazzurri. Anche il 28 maggio 1989 la vinse quasi da solo. Al Meazza arrivava il Napoli, la classe di Maradona ne faceva l’unica squadra che stava tenendo la scia dei nerazzurri proiettati verso lo scudetto dei record. Mancava solo la matematica e la festa, dopo 9 anni di attesa, sarebbe stata completa.
La festa a Zenga la fece Careca nel primo tempo, con una saetta imparabile. Serena e Diaz si mangiarono tre gol fatti, la gente nerazzurra non aveva paura, conosceva valore e temperamento di quei ragazzi. Ma quello strano formicolio iniziava a serpeggiare sugli spalti, fatto di tensione, speranza, preghiera. Ci mise lo zampino la sorte anche questa volta, quando ad inizio ripresa la schiena di Fusi incrociò il tiro di Nicolino Berti rendendolo imparabile per Giuliani. E poi arrivò quella punizione, al vertice della mezzaluna davanti all’area di rigore. Lothar ha ricordato quel momento pochi mesi fa in una intervista a Eurosport: “Brehme aveva fatto un po' di casino e qualcuno del Napoli non aveva rispettato la distanza. Per fortuna l'arbitro ha fatto ripetere e ho detto a Andy di non scherzare e di farsi da parte. Ho visto che tra il secondo e il terzo uomo in barriera c'era un buco e ho rischiato, mirando proprio sul muro.”
Regnò in nerazzurro fino al 1992, quando un infortunio gravissimo e qualche tensione con la dirigenza gli fecero capire che era il momento di tornare a casa. Di nuovo al Bayern, senza più la potenza esplosiva della giovinezza ma con la consapevolezza matura di chi sa dove può spingersi con il suo fisico. Lui non si spinse più avanti come il carattere gli aveva sempre consigliato. Anzi, retrocedette, indietro, molto indietro, fin quasi sulla linea della difesa. Li si piazzò e per altri 9 anni dette spettacolo, meno gol più assist, meno incursioni ma più vittorie, trovando un nuovo modo per dire al mondo “sono sempre vivo, comando sempre io”.
“Impossibile dimenticare l'esplosione di San Siro!” ha detto Matthaus ricordando il gol scudetto al Napoli. Impossibile anche per noi dimenticare un campione come lui, che oggi compie 60 anni. Buona vita Lothar.