Dopo 14 mesi sono tornato a San Siro. Ero uscito dal secondo rosso il 9 febbraio dello scorso anno felice come un bambino dopo il 4 a 2 nel derby, ieri dalla tribuna stampa ho guardato con malinconia il mio settore, distante solo pochi metri, vuoto, vuoto come il primo rosso, vuoto come i settori arancioni, quelli verdi e quelli blu. San Siro vuoto mette angoscia, si guarda la partita ma ora è il gigante silenzioso che ci osserva, siamo pochi e piccoli spersi in quella montagna di cemento amico da sempre mentre prima eravamo noi a scrutarne ogni angolo per capire le sensazioni, gli umori, i colori, i suoni, quanti siamo oggi, quanti sono i tifosi avversari.
Agli stadi vuoti la TV ci ha allenati ormai da un anno, la sensazione è strana ma prevedibile. Quello che non avevo messo in conto è il piazzale davanti allo stadio, dove un anno fa la vita pullulava di autobus che scaricavano migliaia di tifosi di ogni parte d’Italia molti dei quali tiravano fuori banchetti e vai con vino e pane e prosciutto e formaggi perché il calcio è più bello se si mangia con gli amici. E poi i bambini con gli occhi illuminati dalle sciarpe e dalle magliette dei campioni nerazzurri, il rito della birretta con l’odore delle salamelle sfrigolanti sulle griglie che ti accoglieva come si fa con un vecchio amico, con l’attesa della partita che rovesciava fiumi di adrenalina su quel pezzo di mondo magico che ogni 15 giorni, per due ore, raccoglieva una umanità strana ma gioiosa.
Attraversarlo da solo, senza un cane intorno, è stato un pugno nello stomaco, ti accorgi di quanto sia enorme quello spazio e di quanto sia triste nella sua inutilità senza la gente. Torneranno i tifosi prima o poi e quando torneranno dovranno far festa anche per il solo fatto di esserci, di poter finalmente riassaporare quelle sensazioni, di poter riabbracciare chi nel catino sta a 200 metri ma vive la tua stessa passione.
La partita non ha detto granchè di nuovo se non che i nerazzurri sono ad un passo dal dover riaprire il salone dei trofei in Viale della Liberazione e fare spazio per accogliere un nuovo ospite, 10 anni dopo aver chiuso i battenti per l’ultima vittoria.
La sensazione è che l’Inter ormai scenda in campo con due certezze, quella di avere una difesa straordinaria che capitola ad ogni morte di Papa (Bergoglio non ce ne voglia) e quella che prima o poi l’occasione per buttar dentro il golletto della vittoria arriva. Consapevolezze che scacciano la frenesia, impongono lucidità fino al 90mo, alzano la qualità delle giocate dei singoli e di squadra. Il Cagliari è venuto a Milano per portar via un punto, difendersi a oltranza non è sembrata una buona mossa, le qualità tecniche medie degli isolani non sono certo da retrocessione e potevano suggerire un atteggiamento più baldanzoso. L’Inter si è adeguata, ha cercato la strada giusta, ha fatto felice il giovane sostituto di Cragno, Guglielmo Vicario autore di una prestazione favolosa per bagnare l’esordio nella massima serie, poi ha colpito. L’ansia degli ultimi 10 minuti è stata intensa ma palle gol concrete per gli attaccanti sardi zero.
Darmian si è confermato una volta ancora il più sottovalutato degli ultimi acquisti, Sensi (finalmente buon protagonista non solo sui social o nelle infermerie) ed Eriksen in versione de luxe hanno postato al mister il messaggio che possono giocare insieme alla bisogna, anche e soprattutto con Barella a mulinare gambe e polmoni. Non è stato piacevole vederli uscire insieme per fare spazio, dopo il vantaggio, a Vecino e Gagliardini che non hanno i piedi per far salire la squadra a suon di tecnica ma non hanno avuto neanche le gambe per ridurre i rischi che potevano venire dalla disperazione del Cagliari. Sostituzioni contiane che più contiane non si può, buone solo perché non è successo niente.
E’ successo solo che l’Inter ha ancora 11 (12) punti di vantaggio sul Milan, una in meno alla fine e tutti a casa alè, a sentire il rumore degli altri. Amala