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SuperLega: tra passione e ipocrisia

Di Antonio Toscano

Stava per accadere la definitiva scissione tra la borghesia e il proletariato. Stavamo per tornare ai tempi della Victorian Age. A scatenare il secondo polverone, guarda caso, sono stati proprio gli inglesi.

Nel pomeriggio del 19 aprile, in un giorno che sembrava apparentemente tranquillo, i giornali di tutto il mondo cominciarono a parlare di una rivoluzione imminente. Il calcio stava per cambiare drasticamente. Nella notte dello stesso giorno arriva l’annuncio ufficiale: nasce la SuperLega, formata (e fondata) da 12 club che hanno scritto il maggior numero di pagine di storia calcistica europea. La meritocrazia stentava a resistere tramite quei cinque posti vacanti lasciati ai club che avrebbero dovuto sbranarsi nel campionato nazionale per ottenerli. Perché quella sarebbe stata l’unica occasione per confrontarsi con le grandi che, nel frattempo, osservavano le lotte proletarie dall’alto delle loro poltrone miliardarie.

Florentino Perez e Andrea Agnelli, dicono, le menti che maggiormente hanno partecipato ed insistito per la creazione di questa nuova competizione. Il primo, presidente del Real Madrid, dimostrava tantissima sicurezza ai microfoni di El Chiringuito TV, redazione spagnola che raccolse le primissime testimonianze dirette riguardo la nuova competizione, nella notte tra il 20 e il 21 aprile.

Succede tutto in 48 ore: in strada cominciavano a scaldarsi gli animi. In Inghilterra, specialmente i tifosi del Liverpool e del Chelsea, erano fortemente contrari a tutto ciò. Klopp e Guardiola presero posizione in conferenza stampa, anche loro contrari alla SuperLega. Le numerose e continue proteste portarono le sei inglesi ad uscire definitivamente dalla SuperLega, la sera del 21 aprile.

Erano rimaste solo in sei: tre italiane e tre spagnole. Non aveva più senso continuare, la SuperLega muore.

Nessuno sarebbe voluto arrivare a quel punto, nessuno avrebbe voluto rinunciare a quella piccolissima percentuale di meritocrazia che consente di arrivare alla vittoria nel calcio moderno. Uno sport che, inutile dirlo e ribadirlo, non sarebbe stato “comprato” tra il 19 e il 21 aprile ma decisamente molto prima. Dunque è lecito difendere sempre e comunque la meritocrazia, è lecito gridare ad alta voce “il calcio è dei tifosi”. Ma è giusto anche, immediatamente dopo, riflettere e pensare tra sé e sé a come si è arrivati a tutto ciò. Le risposte, in fondo, le conosciamo tutti. Perché, da sempre, il mondo è composto da coloro che rispettano le regole evitando di mettere a rischio la loro immagine e la loro dignità, e da coloro che invece pensano che tutto si può comprare (non solo due giocatori per un totale di circa 400 milioni di euro).

Ebbene, in un calcio piegato in due dal Covid c’è comunque chi, a quanto pare, non si preoccupa così tanto delle proprie casse. Evidentemente perché la pandemia è stata come una semplicissima (e piccolissima) pulce che si è infilata certamente nei conti dei club, ma non ha inficiato più di tanto. Non avendo nessun motivo di attuare nessuna rivoluzione per il bene della propria squadra, qualcuno si è dunque furbamente posto “dalla parte dei buoni”, ergendosi a paladino dello sport. Costoro, al mercato, si saranno confusi e nella fretta di “comprare tutto ciò che si può comprare”, evidentemente hanno acquistato una grossa, immensa, dose di ipocrisia.

Lunga vita allo sport, lunga vita alla meritocrazia. Ma lasciate che siano i proletari a dirlo.