Cara Inter, quel che non meritavamo di vivere con questo scudetto
Quando l’Italia chiuse 14 mesi fa per il primo lockdown molti sostennero che da questa prova saremmo usciti migliori. Nel caso dell’Inter avevano ragione, oggi possiamo dirlo con certezza. Emozionarsi per un’emozione che non c’è, qualcosa di meraviglioso che sai esistere li vicino a te ma che non puoi vedere, non puoi toccare. Solo il calcio riesce in questa magia, si chiama fede e non a caso.
Quella del popolo interista ha superato la prova più dura. Avere la festa dello scudetto a 50 metri e non potervi partecipare è stato un supplizio che non meritavano, dopo 11 anni di attesa, dopo Vecino che la prende all’ultimo minuto, dopo D’Ambrosio che centra la traversa di Samir ricevendo in cambio un bacio, dopo aver visto lo scranno più alto del club, solitamente occupato da gentiluomini lumbard finire sotto le chiappe potenti ma meno nobili di indonesiani e cinesi. In poche parole dopo aver compiuto una traversata nel deserto, certo più breve di quella degli ebrei ma la loro terra promessa era un po’ più importante di quella nerazzurra e nonostante questo molti tifosi avrebbero preferito mesi di digiuno piuttosto che vedere Pereira e Kuzmanovic, Dalbert, Shaqiri e Joao Mario pascolare sulle verdi zolle di San Siro.
Ero tornato a San Siro poco più di un mese fa per Inter Cagliari. Allo stadio senza pubblico ero abituato da mesi di partite viste in Tv, al piazzale antistante il Meazza vuoto come una spiaggia il 12 novembre no, un vero pugno nello stomaco.
Quello spazio in cui per anni abbiamo mischiato speranze e paure a litri di birra e salamelle, oggi è tornato a nuova vita, riempito proprio dalla fede debordante degli interisti, capaci di reggere la prova suprema di non poter entrare nel tempio per la celebrazione più bella e dunque assiepati in quella terra riconquistata a suon di mascherine e vaccini solo per attendere la manifestazione della vittoria. Una Epifania laica nella quale il più felice sembra essere lo stadio, il nostro vecchio stadio, immobile nella sua imponenza, turbato dalle voci che lo vogliono ormai da rottamare ma che che sembrava dire “ora lasciate che i tifosi vengano a me”.
Un gigante vecchio e ferito ma estasiato dal rivedere finalmente le sue genti, quasi strizzando loro l’occhiolino, ben sapendo che le lungaggini italiane (e pure quelle cinesi) allontaneranno il giorno della sua fine magari fino a quando un saggio alzerà la mano e dirà ad alta voce che questo è lo stadio più bello del mondo e che la bellezza non può essere cancellata. Fino ad oggi non gli ha creduto nessuno, ma tempus fugit e adesso fugit pure la pecunia. Hai visto mai che…