Burgnich che ci facevi lì ? Avevamo ancora bisogno di te, Roccia

Tarcisio Burgnich non doveva essere lì in quel momento, che ci faceva lì? Cosa lo aveva spinto lì? Dopo averci raggiunto a tempo scaduto, i tedeschi ci avevano messo sotto all’inizio del primo supplementare, quel diavoletto malefico di Muller aveva uccellato Albertosi e Cera con tocco insignificante su una capocciata di Seeler. Il sogno costruito sul gol di Bonimba in apertura stava svanendo in una nuvola di caldo umido messicano.

“Ma che sono più fesso di Schnellinger”, deve aver pensato la Roccia. E via per praterie a lui sconosciute, “territori ostili” li avrebbe chiamati il Caressa del 1970, la metà campo avversaria di qualsiasi stadio del mondo non aveva quasi mai conosciuto quel furlan con lo sguardo duro e sempre imbronciato. Qualcuno ha parlato di una illuminazione mariana che lo aveva spinto ad attraversare tutto il campo mentre i nostri stavano per battere una punizione, per essere dove l’istinto gli aveva ordinato di essere. Nessuno si accorge di lui quando Rivera batte quel piazzato, non i tedeschi, non le telecamere, di certo neanche il 10 del Milan. E neanche il tedescone che sbaglia il rinvio, mettendolo sui piedi di Tarcisio lì dove doveva trovarsi Bonimba o Riva, magari anche Domenghini, ma non lui. E invece c’era il centravanti Tarcisio Burgnich, sollevato da terra dall’urlo di una nazione intera davanti agli schermi in bianco e nero “tira Tarcisio, tira…” Istinto, sacrificio, fortuna, rabbia, disperazione messi in un frullatore per farne uscire quel tiro che fece esplodere una nazione intera, aprendo le porte ai 20 minuti di calcio immortali nella storia degli azzurri. Chiunque altro, su quel gol, avrebbe costruito un castello di orgoglio ma non lui, impastato con una modestia oggi sconosciuta: “Quando ci troviamo ancora adesso Domenghini, Riva, Mazzola, Rivera, Bertini, mi prendono in giro: ma come hai fatto a fare un gol così? E io ripeto sempre la stessa cosa: ma che ne so?”

L’Inter lo prese per metterlo vicino ad uno spilungone biondiccio e taciturno come lui, Giacinto Facchetti,  per farne una delle coppie difensive più strepitose della storia del calcio. Uno a mordere i garretti della punta avversaria più tignosa, l’altro a svolazzare sulla sua fascia, cosa mai vista fino a quel momento e men che meno un terzino che segnasse con una certa regolarità. Una coppia di fatto nerazzurra, anche fuori dal campo: “ho dormito più con lui che con mia moglie” ha detto Tarcisio in una intervista in occasione dei suo 80mo compleanno.

Un soprannome che gli resterà attaccato per tutta la carriera, la “Roccia“, affibbiatogli da Armando Picchi una domenica in cui  giocava contro la Spal, la squadra del compianto capitano della grande Inter prima di vestire i colori nerazzurri. L’ala dei ferraresi era un suo amico, Novelli, nel pre partita Picchi lo aveva avvertito “ti marca Burgnich occhio che è tosto non ti fa toccare palla”. Un contrasto duro in partita, Tarcisio resta in piedi, Novelli no, finisce ko ed esce dal campo con un ginocchio malandato con Picchi ad apostrofarlo “te lo avevo detto che questo è una roccia”.

Qualcuno lo ha definito l’amico o il collega silenzioso sempre al tuo fianco, quello di cui ti puoi fidare. Perché il suo brodo era l’onestà, quella totale, che quando succede ti porta a riconoscere che un avversario è stato più bravo di te. A lui è successo due volte, quando Pelè gli volò con il bacino quasi sopra le spalle e le braccia disperatamente aperte per mettere dentro l’1 a 0 della finale mondiale 1970, e quando un altro friulano, Ezio Pascutti lo anticipò mentre la Roccia era già in volo su un cross in un Inter Bologna degli anni 60: “un gol così poteva segnarlo solo un campione come Ezio, in fondo mi ha fatto piacere che gli sia riuscita una prodezza del genere”.

Oggi più che mai l’Inter e l’Italia avrebbero bisogno di tanti Burgnich.

Ciao Tarcisio, ciao Roccia