Durante il suo lungo intervento in esclusiva a 'La Voce Nerazzurra', Riccardo Cucchi ha toccato molti temi a partire da quel lontano 1968, che coincise anche con l'unico successo a un campionato europeo dell'Italia.
La rivoluzione
In quegli anni la rivoluzione culturale sociale era sbarcata in tutto il mondo. Lo sport è stato spesso catalizzatore di rivoluzioni. “Faccio fatica a sovrapporre le tematiche sociali e politiche con l'evoluzione del calcio. Sono due mondi che viaggiano insieme ma diversi l'uno dall'altro. Per la mia generazione quel fermento rappresentò qualcosa di straordinario. Io sono stato un sessantottino ma ora, che ho i capelli bianchi, riflettendo sulla mia storia, sulla storia di tanti ragazzi come me che quegli ideali che potevano essere vittoriosi hanno portato anche molte delusioni. Io ero allo stadio durante la finale del 68' e probabilmente in quello stadio olimpico non erano ancora arrivati i fermenti delle piazze e le proteste degli studenti. Io vorrei che si evitasse di attribuire al calcio pesi di cui non può farsi carico. Il calcio non può risolvere le guerre e i contrasti sociali, può contribuire esportando valori e serenità esprimendo un gioco”
Il calcio romantico
“La generazione dei calciatori dell'europeo '68 è stata l'ultima generazione di calciatori figli della guerra. Figli di privazioni e nati nella povertà. Quello che sorprende è l'enorme debito di riconoscenza che il calcio italiano di quegli anni ha con le parrocchie. La nascita e la crescita dei calciatori partiva dalle parrocchie e poi arrivava nelle società. Poi l'avvento della televisione dal mondiale di Messico '70 ha cambiato in maniera radicale il modo di concepire il calcio. Quello è stato l'ultimo raggio di calcio romantico dove i calciatori venivano da famiglie povere e sono arrivati a diventare campioni, a giocare europei e mondiali.”