Europei 2020: le parole di Lukaku, la foto storica e l’Italia divisa

Lo scrittore britannico Simon Kuper ha detto: “Il calcio è un gioco ma anche un fenomeno sociale. Quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco, esso cessa di essere solo un gioco”. Il suo aforisma è perfetto per le ultime ore caratterizzate dalle polemiche che dividono, come sempre, l’Italia fra Guelfi e Ghibellini. Questa volta, però, non ci sono di mezzo né Papi né imperatori. Non ci sono né Federico II né le scomuniche di Gregorio IX. C’è il gesto di inginocchiarsi (o no) contro il razzismo.

Leonardo Bonucci ha detto che la Nazionale, impegnata questa sera (sabato 26 giugno, ndr) contro l’Austria negli ottavi di finale dell’Europeo, deciderà dopo una riunione. A parole ha rimarcato come “siamo tutti contro il razzismo”. Intanto divampano le polemiche. C’è chi sostiene che, dopo la morte di George Flyod, ci sia un’isteria globale attorno a un atto, l’inginocchiarsi appunto, che di per sé manifesta una resa, non l’affermazione di una battaglia ritenuta giusta. C’è chi ribatte che i “calciatori della Nazionale che si sono inginocchiati (contro il Galles, ndr) per manifestare a tutto il mondo la loro protesta contro il razzismo, hanno compiuto un gesto civile e apprezzabile”.

C’è poi chi, come Romelu Lukaku, pochissimi giorni prima dell'inizio dell'Europeo, non le ha mandate a dire. “Penso che il razzismo nel calcio in questo momento sia al massimo storico. Perché? Anche a causa dei social media ora. Capisco perché persone come Thierry Henry stanno bloccando i social. Le società di social media devono fare di più per me”. Lui, già l’estate scorsa, dopo una rete in campionato, si era inginocchiato e aveva alzato il pugno al cielo.

Ecco, il pugno al cielo. In queste ore si sta facendo strada un’altra corrente di pensiero. “Inginocchiarsi è un gesto buono per la fotografia e nulla più”. Chi la sostiene, forse, dimentica un esempio ‘abbastanza importante’. È il 17 ottobre 1968. Ai Giochi di Città del Messico Tommie Smith vince la finale dei 200 metri maschili e John Carlos arriva terzo. Smith e Carlos, nel novembre del 1967, hanno partecipato a Los Angeles alla Conferenza della gioventù nera, animata da Harri Edwards, leader dell'organizzazione ‘Black Power’. Salgono sul podio. Alzano il pugno nel guanto nero. Indossano anche i 'pimp socks', i calzini neri che nello slang dei ghetti hanno un significato di protesta.  Niente era stato improvvisato, tutto studiato nei minimi particolari: riunioni, incontri, dibattiti si erano susseguiti nei mesi prima dei Giochi. Gli atleti neri volevano lanciare un segnale al mondo proprio da quelle che sarebbero diventate le prime Olimpiadi trasmesse in diretta tv. D’altronde in quei giorni “nell'aria c'è il vento della contestazione, l'odore del piombo e del sangue di piazza delle Tre Culture, nel cuore di ogni nero americano il dolore per l'assassinio appena sei mesi prima di Martin Luther King”.

Tornando al presente… In queste ore Luigi Garlando, prima firma della Gazzetta dello Sport, ha scritto: “Inginocchiandosi non si manifesta l’appartenenza a una parte contro un’altra. Si chiede semplicemente il rispetto per persone discriminate, questo dovrebbe essere un sentimento universale accettato da tutti”. Emanuele Boffi su tempi.it gli ha invece ribattuto che “la genuflessione in questo caso non è un implicito e asettico riferimento alla battaglia contro il razzismo, ma un esplicito riferimento alle lotte di Black Lives Matter. Lotte che hanno una manifesta connotazione politica, un riferimento culturale forte, un significato preciso”.

Insomma: Guelfi e Ghibellini, dicevamo. Chi scrive è totalmente d’accordo con Riccardo Cucchi, voce del calcio italiano per decenni: “Preferirei che lanciassero un segnale contro il razzismo. Ma questa è solo la mia opinione. Insisto su un punto: il gesto deve essere sentito e spontaneo. Dunque lasciato alla sensibilità individuale”.

Perché dev’essere spontaneo? Perché i calciatori hanno più ‘potere simbolico’ di quanto si possa pensare. E un loro gesto (o non gesto) non passa inosservato. D’altronde “il calcio è un gioco ma anche un fenomeno sociale. Quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco, esso cessa di essere solo un gioco”.