Grazie a media e social che trasmettono tutto in tempo reale, ieri sera abbiamo potuto vivere le reazioni immediate dopo l’ultimo rigore parato da Donnarumma, le lacrime dei giocatori, Spinazzola che saltellava sulle sue stampelle come un grillo impazzito di felicità, Bonucci che invitava i supporters inglesi a mangiare ancora tanta pastasciutta e via dicendo, mentre un popolo perennemente diviso trovava forse l’unico momento di unione vera e felice, dopo 18 mesi passati nel terrore dei numeri quotidiani del Covid.
L’11 luglio continua ad essere un giorno felice per l’Italia e gli italiani, nel 1982 fu Sandro Pertini a gioire a modo suo al Bernabeu di fronte al re spagnolo, ieri sera Sergio Mattarella ha potuto rivivere la stessa emozione e lo stesso gesto al gol di Bonucci. Dietro di loro, oggi come 39 anni fa, una nazione ebbra di gioia, che per qualche settimana ha ritrovato qualcosa da condividere con tutti gli altri, anche con avversari sportivi, politici, ideologici, degni di un abbraccio in nome di un gol di Paolo Rossi o di Federico Chiesa ma pronta a ritrovare entro 24/48 ore ogni motivo per tornare a dividersi. L’europeo ha regalato un sogno comunitario bellissimo ma resistente come una bolla di sapone di fronte alle emergenze che il paese ha davanti e forse è giusto così, da domani si torna a pensare ai posti di lavoro persi e a come tornare a far correre l’economia più dei laterali e dei centrocampisti.
Più o meno come 53 anni fa. Quando Giacinto Facchetti alzò al cielo di Roma la coppa dopo i gol di Riva e Anastasi i canali della Rai regalarono le immagini di un trionfo in bianco e nero mentre l’Italia era impregnata di proteste e ribellioni per un ’68 che santificava ancora più gli ideologi che non i bomber, mentre una stagione di sangue faceva capolino in nome di una rivoluzione che gli italiani respinsero con volontà ferrea. Le luci accese da migliaia di accendini sugli spalti dell’Olimpico rappresentarono l’immagine più emblematica e scenografica del legame tra la gente ed i suoi 11 ragazzi in maglia azzurra che fecero il giro d’onore alzando la stessa coppa ieri alzata da Chiellini in faccia alla intempestiva prosopopea degli inglesi.
Se il destino non ce lo avesse sottratto in maniera così brutale, Giacinto sarebbe stato sulle tribune di Wembley ieri sera, per la consegna ideale del testimone al capitano odierno, sarebbe stato un segno bellissimo di continuità della volontà di una nazionale spinta dal calore di un popolo oggi come allora pieno di problemi enormi ma ancor più di orgoglio per quei colori. Ed avrebbe abbracciato con affetto un po’ più marcato Nicolò Barella, il tamburino sardo-nerazzurro che ha suonato la carica finchè il fiato lo ha sorretto e Alessandro Bastoni, che ha bagnato il suo esordio in azzurro con un successo che molti non hanno mai avuto in decenni di onorata carriera, in attesa di rilevare il posto e magari il grado di chi gli sta davanti.
E poi sarebbe andato alla ricerca di Lele Oriali, uno dei suoi eredi prediletti nel cuore degli interisti perché entrambi testimoni dell’interismo più vero e, in fondo veri portafortuna dei loro gruppi. Quando nella semifinale contro la Russia Facchetti abbandonò il campo per andare negli spogliatoi per il lancio della monetina insieme all’ arbitro ed al capitano avversario, Burgnich tranquilizzò tutti, la fortuna del Cipe era conosciuta e infatti poco dopo fu lui ad uscire con le braccia al cielo dal tunnel mentre i russi sacramentavano. Un po’ come Lele, che vince dovunque vada, con chiunque vada, che si chiami Mourinho, Conte o Mancini.
E magari tra una pacca e una lacrima gli avrebbe dato uno dei suoi consigli, miti nella forma ma solidi come pietra nella sostanza: “ma ‘ndo vai Lele, fatti passare le paturnie e resta all’Inter, abbiamo bisogno di te, la seconda stella ci aspetta”.