Arrivare sulla panchina dell’Inter dopo Conte non è facile. La personalità debordante del tecnico leccese è un muro altissimo con il quale confrontarsi, tanto più se arricchita da uno scudetto atteso da 11 anni e conquistato a mani basse.
Inzaghi si è avvicinato all’Inter in maniera intelligente, profilo basso e pedalare, dogma valido per sé stesso oltre che per i giocatori. Il timbro che lo ha accompagnato sotto la Madonnina è quello dell’allenatore giovane di fronte alla prima grande sfida della sua carriera. Ma soprattutto quello dell’aziendalista pronto a cucinare il pranzo con gli ingredienti scelti dalla società, l’esatto contrario del suo predecessore arrivato con la lista della spesa già pronta ed uscito quando ha capito che il tempo di ostriche e champagne era finito, pane e cicoria non facevano per lui.
Approccio realista ed intelligente quello di Inzaghi, cosa buona e giusta nel periodo più difficile per la società sia per gli effetti della pandemia che per la crisi del gruppo Suning, mazzate che sono costate le cessioni di Hakimi e Lukaku.
Tutto ciò premesso, l’Inter si presenta ai nastri di partenza del campionato senza l’aurea della favorita d’obbligo, ruolo che gli spetterebbe di diritto per la scudetto cucito sul petto ma neanche con l’intenzione di recitare la parte del comprimario, il mercato in entrata ha portato sostituzioni di ottimo livello ed ancora manca l’ultimo colpo in attacco. La concorrenza soffre degli stessi mali, difficile che Allegri e Locatelli valgano da soli i 13 punti di gap rimediati lo scorso anno mentre il mercato di casa Milan può essere definito, al massimo, dolorosamente conservativo, non certo aggressivo. La Roma ha speso una fortuna, fatto scontato con l’arrivo di Morurinho, per assemblare una squadra per adesso tutta da valutare, a Napoli Spalletti è una garanzia di competitività ma anche lui è chiamato a confrontarsi con i mal di pancia di Insigne e quelli di De Laurentiis. Insomma se Atene piange Sparta non ride.
In casa nerazzurra tutto ruota intorno ad un concetto, quello di aspettativa.
Se i tifosi si possono permettere di ondeggiare tra il pessimismo leopardiano e l’ottimismo sale della vita a prescindere, Inzaghi no. Chi ha in mano il timone, tanto più se novizio, sa che tanto più alta è l’asticella delle aspettative tanto maggiore è il rischio della caduta rovinosa. E le aspettative non viaggiano solo sulle gambe della rosa, l’aspetto della comunicazione non è certo meno importante.
Per questo Inzaghi chiede alla società non giocatori top ma almeno quella chiarezza che gli possa permettere di non andare in fibrillazione alla prima difficoltà. Chiarezza negli obbiettivi stagionali, parlare di seconda stella ora è un suicidio mediatico, il target è restare saldamente nelle prime 4 posizioni che assicurano Champions e soldi, magari restando agganciati al treno dei primi fino alla fine e tornare negli ottavi nell’Europa che conta. Quel che arrivasse in più sarebbe grasso che cola.
Ha ragione il mister a pretendere che la società faccia chiarezza fin da subito.
Lo aveva fatto anche Conte ma ai suoi tempi il mercato regalava Lukaku e Barella, Hakimi e pure Vidal (!!), la sua richiesta odorava di maniavantismo, di paura più per il proprio orgoglio che per la squadra.
Quella di Inzaghi odora solo di realismo.