Uno dei più grandi intellettuali della storia dell’umanità come Sigmund Freud, diceva sempre che non amava proclamarsi ‘genio’ grazie ai suoi studi psicanalitici, perché in realtà altro non fece che raccogliere quanto avevano già teorizzato filosofi, scrittori, poeti ed intellettuali di vario tipo, i quali lo avevano pian piano condotto alle sue teorie.
Io non so se effettivamente Freud avesse torto o meno. Quel che è certo è che ho sempre pensato che fosse un genio colui il quale fosse riuscito a portare al mondo esterno tutto quello che gli altri – e qui differisce dal comune mortale – avrebbero soltanto inconsciamente pensato, adattando il loro comportamento. Un po’ come la teoria di Mario Monicelli, che in ‘Amici miei’, attraverso la voce del Pirozzi disse: “Cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione”.
Ecco, questa definizione mi è stata più chiara da grande. Da piccolo, invece, non riuscivo ad essere granchè analitico nelle mie analisi, ma, per dirla alla De Andrè, “mi innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani”. E fu così anche in quel lontano 31 agosto del 1997, quando in uno stadio San Siro tutto esaurito, esordiva forse il più grande calciatore della storia dell’Inter, tale Luis Nazario da Lima detto Ronaldo. Al tempo avevo 4 anni appena compiuti ed il mio tifo per l’Inter era dettato esclusivamente da osmosi paterna, tanto che i miei occhi erano tutti per quel giovane brasiliano, senza badare troppo agli altri 10 in campo. Avvertivo che potesse trattarsi di un evento straordinario. Mamma e papà invitarono gli amici a pranzo e poi tutti davanti alla tv per vedere la partita. Rimasi deluso: in quell’esordio, per quanto quel brasiliano potesse provarci, non riusciva proprio a metterla dentro. Fu la partita di un altro pallino della mia carriera da tifoso, Alvaro Recoba. Ma questa è un’altra storia. 2-1 al Brescia e primi tre punti conquistati. Ma non ero felice. La mia conoscenza del calcio non era alta e nel mio immaginario da bambino Ronaldo avrebbe dovuto segnare 10 gol a partita. Mio padre mi tranquillizzò e mi disse di avere pazienza. Lo feci. E fu amore folle.
Serpentine fulminanti, giocate mai viste e pensate fino a quel momento in un campo da calcio. Potenza e leggiadria. Atletismo e tecnica. Furia agonistica e gioia. Tutto questo era Ronaldo o forse di più. Dopo il gol al Dall’Ara di Bologna, la mia cameretta cominciò a riempirsi dei primi poster, dei primi gadget e di un’infinità di maglie a tema Ronaldo – compreso il primo gioco a tema dedicato esclusivamente ad un calciatore: Ronaldo V-Football. Un rapporto paragonabile a quello tra Andy e Woody in ‘Toy Story’. Un amore talmente viscerale da provocare le prime lacrime dettate dal sentimento verso un’altra persona. A cominciare dagli infortuni a quel ginocchio tanto fragile, che portarono tanti – forse troppi – a dire che cosa sarebbe potuto essere con altre ginocchia (a mio avviso, cosa assurda, perché anche con quelle ginocchia è stato uno dei più grandi di tutti i tempi), fino all’addio alla maglia nerazzurra e il ritorno a Milano, ma in quella sbagliata. Ronaldo, fino al giorno del suo ritiro, è riuscito a scandire il termometro dei miei sentimenti calcistici e di quelli di tanti altri tifosi. E’ riuscito a farmi innamorare a prescindere anche di quello che fu il suo sostituto designato – tale Adriano Leite Ribeiro -. E’ riuscito a farmi provare, dopo il suo passaggio al Milan, quel sentimento di ‘avversione’ dettata da ‘amore’.
Parlare di Ronaldo non è mai facile. Il rischio è sempre quello di ricadere in cose già dette o in clichè banali. E oggi, nel giorno del suo 45esimo compleanno, tutto quello che volevo fare era far capire cosa è stato questo calciatore per me – ma non solo. Perché Ronaldo non è stato un semplice attaccante, è stato soprattutto – e ho ripetuto spesso questa parola nel pezzo – un sentimento autentico che è nato da bambino. E questo, tra me e Ronaldo, non cambierà mai.
Auguri Fenomeno,
da parte di ex bambino.