Quando il calcio decide di sorprendere ci riesce come nessun altro.
Lo Sheriff che va a vincere al Bernabeu e comanda il girone a punteggio pieno è una favola moderna oppure, che dir si voglia, la dimostrazione pratica di quanto fascino la Superlega toglierebbe al magico mondo del pallone. Chi non sorprende invece è l’Inter, pervicacemente attaccata alla propria coerenza nel non segnare lo straccio di un gol agli ucraini dello Shakthar per la terza volta consecutiva. Una maledizione? No, il risultato quasi ovvio di un mix di concause. La stanchezza dopo il match di grande intensità con l’Atalanta, la stitichezza realizzativa della coppia d’attacco nerazzurra, qualunque essa sia, non appena si trova davanti le maglie arancioni, mettiamoci pure un briciolo di sfortuna.
Ma il problema più evidente si chiama mentalità. Quella che in Italia Conte ha lasciato in eredità ad Inzaghi può essere sufficiente per giocarsela fino alla fine, un orbo in un mondo di ciechi diventa un privilegiato.
In Europa no, non si va in giro a vendere aria fritta. Se hai talento in quantità industriale (e non è questo il caso dei nerazzurri) te la cavi comunque. Ma se non hai il cane devi far abbaiare il gatto e allora diventa fondamentale l’atteggiamento, ovvero quella dimensione mentale fatta di consapevolezza dei propri limiti e capacità di sfruttare al massimo le proprie carte.
Il problema vero è che dalla difesa in su le carte dell’Inter sono poche soprattutto quando si parla di costruire l’azione. Alla fine, errori grossolani a parte che oggi ci sono domani magari no (sperem), il problema non sta tanto nella produzione offensiva quanto nella impostazione. O meglio ancora nella continuità dell’impostazione, in passato garantita soprattutto dalla lucida presenza di Eriksen, quando il luminare leccese si decise a metterlo nella sua mattonella in pianta stabile, oggi demandata in larga parte al dinamismo e alla fantasia di Barella, sempre più solo tra un Calhanoglu o un Vecino ancora troppo vicini al limite della mediocrità. Brozovic si è incazzato di brutto quando Inzaghi lo ha richiamato in panca, lui per primo sa di non avere un alter ego, portare Barella davanti alla difesa significa sguarnire la mediana avanzata con tutti i problemi del caso. Ma per quanto tempo il croato dovrà/potrà giocarle tutte fino al 95mo senza andare in corto circuito? La coperta è questa, se la tiri da una parte ti scopri dall’altra.
Tutto al macero dunque? Tuttaltro, checchè se ne dica l’Inter ha (quasi) le stesse probabilità di uscire ancora una volta dal girone di Champions o di vincerlo. Se la giocherà in tre match, due dei quali a San Siro, contro due squadre ordinate, fortunate ma ampiamente alla portata. La vittoria dello Sheriff a Madrid viene buona per togliere di mezzo ogni tentazione di sottovalutare i moldavi, poi di nuovo De Zerbi e c. a Milano. Se va bene la trasferta a Madrid potrebbe essere decisiva solo per la testa del girone, se va male si torna al punto di partenza.
In tutto questo minestrone di moccoli e speranze il primo salto di mentalità tocca a Inzaghi. La parola d’ordine è coraggio, “adelante con jucio Simone” avrebbe ordinato il Manzoni, ma comunque adelante perché in questi 270 minuti servirà una ragionevole disinvoltura più che il ruminamento di schemi a cui siamo abituati in campionato. Le pugnette tattiche fuori confine servono a poco, specie quando suona la campana degli ultimi giri. Ci siamo già passati sopra lo scorso anno, la Champions in certi momenti pretende anche di gettare il cappello per aria e andarsela a conquistare a suon di ceffoni la vittoria, senza aspettare che nessuno si impaurisca per un trequartista in più o in meno.
Coraggio Simone, adelante, mal che vada ti andrà come a Conte.