Il calcio è poesia. Quante volte l’abbiamo letto o sentito dire da giornalisti estasiati per esaltare un momento, un gol, un’azione particolarmente bella?
Poi ci sono persone, molto probabilmente assai meno conosciute dei volti noti di Sky o Dazn, che il calcio l’hanno messo in poesia per davvero in una certa fase della loro vita, attratti da un particolare, da un gesto, da una scena. E’ il caso di Umberto Saba e delle sue 5 poesie dedicate al pallone nel Canzoniere dopo aver assistito ad un paio di partite della Triestina. Non che il grande maestro avesse un particolare interesse per il calcio, anzi, ma nonostante tutto volle rappresentare da par suo la tenzone in campo, i suoi protagonisti l’ambiente, gli spettatori e le loro emozioni come rappresentazione scenica della vita.
E infine ci sono poeti che hanno trovato nel calcio una delle ispirazioni più forti della loro opera. Vittorio Sereni è uno di questi ma (almeno in questa sede) con un “ pregio” in più degli altri, il suo profondo amore per l’Inter, un tifo nobile ed appassionato che lo portava tutte le domeniche sugli spalti di San Siro con il suo cuscino in mano e qualche amico a fianco. “Io, nerazzurro da infiniti anni, lo sono diventato una volta per tutte” questa la sua dichiarazione di fede.
Per i suoi tempi, Sereni è stato un rivoluzionario. Quando il calcio era considerato materia lontana dalla cultura alta degli intellettuali, riservata al pensiero debole, un hobby del popolino degli stadi, lui ci si è immerso completamente, sublimandolo come metafora compiuta della vita. Di questo abbiamo già parlato qualche giorno fa (https://www.interdipendenza.net/il-verbo-nerazzurro/quando-l-inter-cambio-anche-il-mondo-della-poesia-148569). Se Eugenio Montale sembra che leggesse la Gazzetta dello Sport nascondendola pudicamente tra i suoi volumi preziosi, Sereni se ne nutriva avidamente come fonte preziosa tanto per l’ispirazione poetica quanto per la passione nerazzurra, mix che lo porterà a familiarizzare con un altro poeta del gol, Pier Paolo Pasolini, altro illuminato frequentatore degli spalti calcistici (quelli bolognesi).
“Come spiegare a qualcuno cui non importi nulla che siamo capaci di star bene o male per un’intera settimana (quando non per tutta la vita) nel r1ipensare a quel gol, a quella sconfitta, a quel palo su cui si sono infranti i sogni di una domenica di bambino? Alla domanda di Nicola Muscas (Rivista Undici del 13.10.2020), Sereni aveva già risposto anni prima: “all’origine c’è un oscuro fatto personale, la scelta di un colore fatta una volta per tutte e non veramente motivabile con tutto l’orgoglio e le ansie e le viltà piccole e grosse”.
Sereni non nasconde la sua malattia, il tifo per l’Inter, anzi ne fa il centro della sua osservazione sull’uomo: “La radice del tifo da campionato di calcio è reperibile qui: nel punto in cui avverti il nesso tra il tuo carattere e la sembianza, la cifra che la squadra assume ai tuoi occhi per analogia ma anche per contrasto o semplicemente per complementarietà rispetto all’immagine che hai di te stesso. Diventa una metafora della tua esistenza la sorte della tua squadra…” Sereni parla così nel 1964 ne “Il fantasma nerazzurro”, (pubblicato nella rivista “Pirelli” n.5-6 ottobre dicembre 1964) il testo con il quale si immerge completamente nella realtà nerazzurra di quel periodo e in quella del passato.
Ma di questo parleremo nei prossimi appuntamenti.
Intanto soffermiamoci un attimo per capire chi è stato Vittorio Sereni.
Nasce a Luino (VA) nel 1913, è figlio unico di Enrico, doganiere, e di Maria Michelina Colombi, discendente di un’agiata famiglia locale. Trasferitosi a Brescia con la famiglia per frequentare il Liceo classico, si diploma con il massimo dei voti all’ “Arnaldo da Brescia” e fin da giovanissimo dimostra grande interesse per lo sport. Calcio, ciclismo ed anche le competizioni automobilistiche sono da sempre tra le sue passioni più forti. Contemporaneamente nasce l’amore per la scrittura, a 18 anni il diario era un’attività tipica a quell’epoca. Vittorio riempie le sue pagine quotidiane con le sensazioni di quell’età, amicizie, amori e anche tanta nostalgia per la sua Luino.
Nel 1932 la famiglia Sereni lascia Brescia per trasferirsi a Milano per facilitare a Vittorio gli studi universitari. Si iscrive a Giurisprudenza ma a distanza di pochi mesi passa a Lettere e Filosofia dove coltiva amicizie preziose, una su tutte quella con Quasimodo, e dove conosce Maria Luis Bonfanti che diventerà sua moglie nel 1940.
Si laurea con il massimo dei voti e inizia subito a comporre i versi che daranno vita alla sua prima raccolta, Frontiera (1941). Nel 1940 non solo il matrimonio ma anche l’esordio come insegnante all’Istituto Magistrale di Modena e, subito dopo, la chiamata alle armi durata però solo pochi mesi, il suo status di insegnante gli permette di lasciare la divisa e tornare alla cattedra di storia e latino quasi subito. Per poco però. Era appena nata la figlia Maria Teresa quando arriva la seconda chiamata della Patria destinazione la Divisione Pistoia, con il grado di sottotenente di complemento.
Quattro mesi in Grecia, l’Africa evitata per un cambio di decisone dei vertici militari all’ultimo momento. Mesi in cui Sereni non interrompe il suo rapporto con la poesia anzi, nascono nuove idee per la seconda edizione di “Frontiera” ricca di riferimenti all’umanità di fronte al conflitto. Nel ’43 Vittorio Sereni è inviato n, dove il 24 luglio viene catturato dagli americani e rinchiuso in prigione come ostaggio militare prima in Algeria e poi in Marocco, fino al 28 luglio 1945. Due anni di reclusione raccontati nella seconda raccolta “Diario d’Algeria” (1947).
Dopo la liberazione, tra il ’45 e il ’46 rientra a Milano con la moglie e la figlia. Trova lavoro come impiegato provvisorio scolastico, anni difficili segnati dall’esperienza di prigionia ma anche straordinariamente intensi sul profilo culturale. Conosce Umberto Saba con il quale instaurerà una grande amicizia e lunghi scambi epistolari e intanto collabora con diverse testate. Nell’ottobre del ’46 riprende l’insegnamento di latino e storia all’Istituto Magistrale «Regina Margherita» a Milano, l’anno dopo nasce la seconda figlia Silvia e per arrotondare lo stipendio inizia a tradurre testi per Mondadori.
Nel 1952 lascia la scuola per la Pirelli. Il mondo della poesia si è già accorto di lui, vince il Premio Libera Stampa con la piccola raccolta “Un lungo sonno”. Anche in Pirelli non resta a guardare, arriva ai vertici ma quando nel 1958 arriva l’offerta di Mondadori il richiamo dell’editoria è troppo forte.
Gli anni Sessanta sono effervescenti, pubblica le poesie di William Carlos Williams tradotte per Einaudi (1961), pubblica le sue prose de “Gli immediati dintorni” (1962) e nello stesso anno con Niccolò Gallo, Dante Isella e Geno Pampaloni fonda la rivista letteraria trimestrale “Questo e altro”.
Nel 1965 escono la seconda edizione del Diario d’Algeria e la prima edizione de “Gli strumenti umani” per Einaudi mentre nel ’67 il poeta si trasferisce con la famiglia nella nuova abitazione poco distante da San Siro che da lì a poco diventerà un nuovo protagonista di alcune sue opere.
La prima antologia delle tre raccolte di Sereni, curata da Lanfranco Caretti, è datata 1973, mentre la quarta e ultima raccolta poetica di Vittorio Sereni, “Stella variabile”, esce nel 1980. Nel 1982 vince il Premio Viareggio per la poesia, ultimo riconoscimento prima di morire il 10 febbraio dell’anno dopo per un aneurisma.
Raccontato dell’uomo, adesso iniziamo a capire come Sereni ha vissuto l’Inter, il suo tifo per l’Inter, il suo essere uno dei tanti nel piccolo mondo di San Siro capace però di trasformarlo in uno spaccato della vita.
Il verde è sommerso in neroazzurri.
Ma le zebre venute di Piemonte
sormontano riscosse a un hallalì
squillato dietro barriere di folla.
Ne fanno un reame bianconero.
La passione fiorisce fazzoletti
di colore sui petti delle donne.
Giro di meriggio canoro,
ti spezza un trillo estremo.
A porte chiuse sei silenzio d’echi
nella pioggia che tutto cancella.
“Domenica sportiva” questo è il titolo della poesia composta da Sereni nel 1935, comparsa già nella prime edizione di “Frontiera”, che prende spunto da un Ambrosiana Inter – Juventus, molto probabilmente quella disputata all’Arena il 31 marzo conclusasi a reti bianche e con due espulsi, il nerazzurro Ghidini e Mumo Orsi che da lì a poco avrebbe vinto il quinto scudetto consecutivo con i bianconeri.
Non un riferimento ad un calciatore, ad un’azione di gioco, al risultato, l’attenzione di Sereni coglie essenzialmente gli aspetti cromatici e acustici dello stadio. Ciò che succede in campo è secondario rispetto all’interesse di Sereni che rivolge il suo sguardo all’ambiente, il verde del prato che diventa il campo di una tenzone di altri tempi, fissata nell’incitamento antico “hallali”, i colori delle maglie, le barriere di folla che disegnano le mura del castello nel reame, la passione per i propri colori, spesso anche violenta, ingentilita e impreziosita dal posizionamento dei fazzoletti sui seni femminili.
Sereni descrive alla perfezione lo scenario che sta intorno allo spettacolo della partita ma la partita non c’è. Una volta descritto l’ambiente che circonda la tenzone la partita è già finita, spezzata dal trillo estremo del fischietto arbitrale con cui scompare il pubblico ed il suo brusio. Resta il silenzio di San Siro sotto la pioggia, che spazza via quei momenti di trasporto spensierato che la partita può offrire, prima che malinconia e monotonia riprendano il sopravvento. Finchè i fari e i rumori vibrano c’è un’esistenza da sopportare volentieri, poi “al giro di meriggio canoro” silenzio e pioggia diventano protagonisti di uno stato di attesa, la settimana che separa da una nuova partita come senso del tempo di attesa dell’intera esistenza.
(continua)