Inter – Lautaro con il volto che sembra tratto da un’opera di Caravaggio, colto nell’attimo di massima soddisfazione e al contempo di dolore fisico per la sofferenza della squadra e sua per l’abbraccio dei compagni evidentemente un po’troppo entusiastico.
Sarà di sicuro la foto più bella della stagione dell’Inter quella dopo il 3 a 2 all’Empoli, immagine che parla da sola di quanto il calcio possa essere drammaticamente bello.
Oggi ci sarebbero decine di argomenti tecnici da affrontare, si dovrebbe parlare della reazione della squadra dopo la mazzata del doppio svantaggio, degli errori sui due gol empolesi, di Pinamonti meglio di Scamacca, di Lautaro oggi trattato di nuovo da fuoriclasse dalla stampa che un mese fa lo dichiarava un bluff, di Calhanoglu sempre più padrone del centrocampo, di Correa lezioso ed impalpabile come una manciata di rugiada in una mattinata d’estate, di De Vrij antico ministro della difesa oggi nelle vesti di un vigile urbano di periferia, di Perisic e Brozovic eterne certezze, di Dumfries che suona la carica nel momento peggiore.
Ma ieri c’è stato un protagonista su tutti ed è giusto rendere omaggio a lui. San Siro e la sua gente, quei 70 mila che imponevano la loro certezza anche mentre Pinamonti e Asllani uccellavano Samir, mentre lo scudetto sembrava allontanarsi definitivamente sulle ali dell’ennesima giornata da dramma semiserio che solo l’Inter riesce a mettere periodicamente in scena. Anche quelle 70 mila facce in quel momento sarebbero state degne di un’ opera caravaggesca ma sotto quella smorfia in viso nessuno ha smesso di credere nella vittoria.
Il 6 maggio ’22 è stata una di quelle giornate in cui San Siro è stato più forte di ogni altro fattore in campo, quelli che in settimana avevano cantato i poteri miracolosi del Bernabeu non scriveranno altrettanto per il Meazza di ieri solo perché non era la Champions, perché l’Empoli non è il City di Guardiola, magari perché non conoscono i respiri diversi dello stadio dell’Inter. Ma chi frequenta regolarmente quegli spalti da decenni non può non aver colto la diversità del clima di ieri, senza un attimo di rassegnazione neanche sullo 0-2, con la curva Nord in azione con le ugole senza soluzione di continuità e lo stadio dietro di lei. In altre occasioni fischi e contumelie più o meno colorite avrebbero invaso l’aere, ieri i vecchi gradoni hanno ricevuto e trasmesso solo affetto, passione, attaccamento a prescindere. Trasmesso in senso fisico, meccanico, sul 2 a 2 e ancor più sul vantaggio del Toro argentino il cemento dello stadio ha ondeggiato come non mai sotto i piedi dei 70 mila. A San Siro succede spesso lo sappiamo ma non in maniera piacevolmente violenta come ieri, segnale inequivocabile che qualcosa di importante stava succedendo.
Il pubblico 12mo uomo in campo è una banalità giornalistica, ieri il popolo del Meazza è stato Presidente, allenatore, massaggiatore di animi e di muscoli, bomber vero, altro che 12mo. Che poi dentro l’abbia buttata Lautaro è discorso diverso ma che discende in larga parte dal clima che quei 70 mila erano riusciti a creare. Anche la pioggia si è fermata, anche il cielo si è messo a guardare quel che stava succedendo a Milano. Che non è un miracolo si badi bene, chi lo dice o lo scrive sbaglia sapendo di sbagliare perché i ragazzi di Inzaghi hanno passato l’intero pomeriggio nella metà campo empolese, 34 conclusioni nerazzurre contro le 4 toscane servono solo a spiegare che se il miracolo c’è stato è che non sia finita 8 a 2.
Una delle leggende più accreditate narra che Siro fosse il giovincello che portò i cinque pani ed i due pesci che Gesù moltiplicò per sfamare migliaia di persone e che poi divenne primo Vescovo di Pavia. San Siro non ha fatto nessun miracolo contro l’Empoli, ha fatto quel che sa fare nella maniera migliore. Il miracolo casomai è atteso nelle prossime ore se il vecchio caro Siro volesse fare un salto a Verona domani sera…