Il flop di Lippi nella Milano nerazzurra
Senza il tandem Moggi-Giraudo, che lo aveva appoggiato e sostenuto alla Juventus, l’avventura interista si rivelò deludente. Evitata la Caporetto grazie a Baggio.
Al pari di Adamo, anche Marcello Lippi colse la mela del giardino proibito. Avrebbe dovuto saperlo che chi nasce tondo non può morire quadrato. Chi è stato alla Juventus, chi ha vinto in bianconero, difficilmente può trovare serenità all’Inter. Discorso che va bene anche a parti invertite. Lippi pensava di essere l’eccezione e si sbagliava. Come lui, anche tanti interisti.
Da Torino a Milano. Quando nell’estate del 1999 Moratti ufficializza la notizia che da mesi è nota anche ai sassi dei vicoli più misteriosi di Torino, sono tanti i tifosi nerazzurri che si abbandonano all’estasi. A pensarci bene, era impossibile – o quasi – ipotizzare qualcosa di diverso. All’ombra della Mole, con il sostegno della Triade più odiata del calcio italiano, Lippi aveva vinto tre scudetti, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea, due Supercoppe Italiane ed una Coppa Italia. L’ultima stagione inizia con un contratto in scadenza ed un rinnovo che non arriva. Lippi riflette, è combattuto. Da un lato ha voglia di rinnovare, dall’altro è affascinato dall’idea di misurarsi in un’altra piazza. È forte il desiderio di dimostrare di essere in grado di camminare da solo, senza Moggi e Giraudo che lo seguono passo passo.
Scene da un manicomio. Il 13 dicembre del ’98 la Juventus è attesa in riva all’Arno. Una partita di quelle definite bollenti perché attesa dalle due tifoserie. I bianconeri sono attardati in classifica, i punti di distanza dalla capolista Fiorentina – una sorpresa griffata Trapattoni – sono sette.
Un blitz rappresenterebbe un toccasana per classifica e morale. Bisognerebbe sgombrare la mente da cattivi pensieri ed invece la vigilia è agitata dalle dichiarazioni di Lippi. Il Paul Newmann di Viareggio annuncia il suo addio a fine stagione. La squadra sembra non seguirlo più e viene colpita e affondata dai colpi di mitraglia di Batistuta. Di Livio viene sostituito e non ci sta, lo palesa mandando a quel paese l’allenatore. Lippi non pensa alle dimissioni, per lui le dà solo chi ha la coscienza sporca. Cambia idea una sera di febbraio quando la sua Zebra si trasforma in tenero agnellino e viene cotta a dovere dal Parma. Cinque anni d’oro vengono cancellati da quattro mesi di fango e quattro pappine della premiata ditta Chiesa & Crespo.
Dinamismo, tattica e metamorfosi. Quando Lippi mette piede ad Appiano Gentile è completamente diverso dalla sua versione bianconera. Si pone da general manager all’inglese, pretende pieni poteri sul mercato. In una squadra in cui hanno comandato tutti, adesso vuole comandare solo lui. Chiede ed ottiene le teste di Pagliuca, Bergomi e Simeone, adepti dell’Interismo più puro e nobile. Moratti compie l’ennesima rivoluzione e pur di accontentarlo gli compra i pupilli Peruzzi, Jugovic e Vieri. Lippi si assurge a Freud e si pone l’obiettivo di trasformare quello che per lui è solo un gruppo di ottimi giocatori in una grande squadra. Parla di analogie con la sua prima Juventus, che come l’Inter aspettava lo scudetto da dieci anni. Le cose cominciano bene – tredici punti nelle prime cinque giornate di campionato – poi la clamorosa sconfitta con il Venezia ed il passo falso nel derby – con tanto di tirata d’orecchie a Ronaldo – spazzano via sterili illusioni e fragili sogni di gloria.
Il mio nemico è mio amico. A proteggergli le spalle sarà Roberto Baggio. Nello spareggio per l’accesso in Champions League contro il Parma, una doppietta del Codino più divino d’Italia gli consente di conquistare il quarto posto e preservare la panchina. Ma l’addio è solo rimandato, Lippi si autoesonera dopo la sconfitta contro la Reggina alla prima giornata del suo secondo campionato nerazzurro. I tifosi gli imputano atteggiamenti presuntuosi ed una cattiva gestione dello spogliatoio. Saluta senza alcun rimpianto pronto a cospargersi il capo di cenere prima di riabbracciare la Juventus, il vero amore calcistico della sua vita. Segno che chi sta bene in bianco e nero, difficilmente si adatta – a parte le eccezioni Trapattoni e Conte – a colori più sgargianti.
(foto tratta da Wikipedia.org)