Il calcio è bello perché è vario (è pure avariato ma ne parliamo un’altra volta).
Un ragazzo di 24 anni, proveniente da un mondo lontano, si è trovato a guidare uno dei club più famosi del calcio mondiale. Non sapeva una parola d’italiano, probabilmente non sapeva neanche le regole del calcio, di certo non conosceva i meccanismi magici e infernali che da oltre 100 anni indirizzano la vita dell’Inter. Riuscì però a farsi capire quando dice “riporterò l’Inter tra le prime al mondo”.
Oggi, a 31 anni, può dire di avercele fatta. Dopo aver vinto uno scudetto, una piccola collezione di coppette nazionali ed aver giocato una finale europea persa malauguratamente, arriva davvero a riveder le stelle, quelle di una finale di Champions, quelle che brillano di luce accecante.
A Istanbul porta un manipolo di giovanotti di belle speranze, molti dei quali italiani alla faccia di chi disprezzava l’Inter quando i compatrioti mancavano. E porta un gruppetto di diversamente giovani, riciclati a costo zero da altre squadre, a testimonianza che quando c’è da stringere la cinghia non si butta via niente.
Zhang porta a Istanbul i suoi guai economici, i suoi problemi cinesi ma anche la sua modestia e la sua sete di vittoria. Nella sua vita pubblica, nei suoi abbigliamenti da adolescente figlio di papà, nelle supercar ostentate si legge la voglia di vivere di un giovanotto come gli altri, solo con qualche milione di euro in più da spendere. Nella sfera nerazzurra invece nessuna parola fuori posto, nessun atteggiamento eccessivo, anche perché i problemi del club non glielo permettono.
Venderà? Resterà? Quanti maremoti ha passato in questi anni post pandemia, figli dei diktat del governo cinese, di fair play a senso unico, di allenatori che lasciano la barca alla deriva scappando con la buonuscita?
Eppure il giovanotto è lì, il timone lo ha retto lui insieme alla sua ciurma di dirigenti più o meno benvoluti, qualcuno troppo juventino, altri troppo morattiani. In una sola parola però capaci di governare una barca nel mare in tempesta fino all’approdo nel porto più sicuro e più prestigioso.
E’ la storia che si ripete, quella dei più abili che usano le difficoltà per trarne risorse insperate, invisibili alla moltitudine.
Oggi Steven Zhang è seduto sulla riva del fiume, vede passare i suoi denigratori e non sorride neanche, la sua cinesità glielo impedisce.
Seduto insieme a lui Simone Inzaghi. Lui invece sorride, è il quarto allenatore che porta l’Inter ad una finale di Champions/Coppa Campioni. Sorride perché il successo nell’Euroderby è talmente enorme che lo solleva anche dal togliersi i sassolini dalla scarpa, la festa di ieri di San Siro ha avuto anche questo potere. Non avrà bisogno di ricordare chi (anche in società?) fomentava le voci sul traghettatore, quelle sul ritorno di Conte, quelle sui novelli condottieri Thiago Motta o De Zerbi.
Inzaghi sorride, la sua educazione e la sua moderazione sono state scambiate per inettitudine. Qualche errore in passato c’è stato da parte sua, specie nella comunicazione, ma ha fatto passi da gigante in pochi mesi. Ha dovuto fare di necessità virtù quando aveva tutti i fucili puntati, una full immersion nel realismo dopo le 11 sconfitte in campionato. Anche lui come Zhang ha girato le difficoltà a suo favore, recuperando una capacità decisionale spesso sacrificata in nome di una gestione del gruppo troppo “politicizzata” e una chiarezza espressiva finalmente all’altezza.
Il segreto della finale conquistata sta tutto qui. Persone che non si sono lasciate travolgere dagli eventi, persone che hanno avuto la forza morale di reagire, di vedere il rosa del futuro laddove tutti vedevano nubi, di lavorare senza curarsi delle malelingue. Questione di “culo” secondo molti, pescare Real o PSG anziché Porto e Benfica avrebbe stravolto la storia di questa stagione.
Forse hanno ragione ma la fortuna aiuta chi sa meritarsela, per gli altri restano l’Europa League, la Conference ed una giornata al mare il prossimo 10 giugno.