Editoriale

Inter, una scatola da portare nel futuro

La seconda stella c’è, nessuno potrà mai toccarcela, resterà sulle maglie a testimonianza di una stagione memorabile.
Quello che scomparirà con il passare tempo è invece il clima di queste ore, di questi giorni, un patrimonio meno tangibile ma non meno eccitante.
E allora costruiamo una scatola da portare con noi nel futuro, un contenitore chiuso da un bel fiocco nerazzurro dove riporre le sensazioni di oggi per riassaporarle in futuro, quando sentiremo il bisogno ed il piacere di ricordare queste ore a noi stessi o ai nostri nipoti.
Ognuno di noi metterà i suoi ricordi più intensi ma alla fine ci sarà una parte della scatola dove tutti metteremo la stessa cosa, una cosa sola che ne racchiude mille: l’emozione.

L’emozione di San Siro

L’emozione di vivere un una simbiosi totale tra squadra, allenatore e tifosi.
Negli ultimi anni, diciamo dal pomeriggio doloroso della inutile vittoria con la Sampdoria, San Siro si è trasformato. L’evoluzione da teatro chic destinato un pubblico raffinato e di bocca buona, pronto ad esultare alla buona novella ma altrettanto incline a massacrare chiunque al terzo errore a campo di battaglia dove tutti sostengono tutti, dove l’urlo della truppa sugli spalti spinge i protagonisti senza soluzioni di continuità.
San Siro non è più una bolgia 20 minuti su 90, adesso è caos felice dal primo all’ultimo fischio dell’arbitro.

Basta condottieri

L’emozione di vedere che l’Inter non ha più bisogno di un condottiero per vincere. Simone Inzaghi ha poco o niente in comune con Bersellini, Trapattoni, Conte, nessuna corazza, nessuna iperbole per giornalisti, la sola arma della sincerità nel presentarsi davanti a tutti per quello che è realmente.
Una persona per bene ed educata prima di tutto, un tecnico che ha saputo riconoscere i proprie errori e trasformarli in fondamenta del successo, un manager che è riuscito a fare passi avanti enormi anche nel suo modo di comunicare.
Conte dedicò lo scudetto a sé stesso, Inzaghi lo ha offerto in dono a tutti gli interisti, la differenza di stile è fin troppo evidente, signori si nasce e Inzaghi lo nacque avrebbe detto oggi Totò.
Un percorso accidentato, perché quando sei all’Inter nessuno ti perdona niente, neanche tra coloro che dovrebbero sostenerti a prescindere.
Il Demone Inzaghi è stato più forte di tutto e di tutti, ha sofferto le polemiche dello scorso anno ma ha tenuto la barra dritta fino ad arrivare a Istanbul.
Lì ha perso la finale ma ha vinto una dimensione continentale, per sé e per i suoi ragazzi, molti non lo hanno capito fino a qualche giorno fa quando Pep Guardiola lo ha spiegato meglio di qualsiasi tifoso nerazzurro.

Un Dna smentito

L’emozione di vedere che l’Inter riesce a vincere dominando gli altri senza attenderli.
Storicamente il Dna nerazzurro parla di cicli costruiti sulle ripartenze, sul contropiede per i più attempati. Inzaghi ha rivoltato questo paradigma storico, la sua squadra è andata in campo per vincere a Salerno come ad Anfield Road, a Madrid come a Frosinone.
Con qualche accorgimento tattico in più legato a importanza e caratteristiche degli avversari ma senza mai smontare il giocattolo perfetto creato, senza venire meno alle proprie convinzioni.

L’emozione della leadership

L’emozione di godersi una squadra consapevole di riuscire sempre a gettare il cuore al di là dell’ostacolo, anche quando le giornate non sono state delle migliori. I gol nel recupero di Frattesi al Verona e a Udine parlano di fame, di ossessione da vittoria. 10 mesi passati senza vedere un accenno di sconforto.

Fino a qualche anno fa questa non era roba da Inter, era patrimonio di altre squadre dotate, chi più chi meno, di una merce sconosciuta in casa interista: la leadership.
Il triennio inzaghiano, supportato da una dirigenza che ha saputo condurre campagne di mercato sostenibili e lungimiranti, ha colmato alla grande questa lacuna.
Oggi la mentalità da leader abbonda, Barella, Calhanoglu, Mkhitaryan non hanno solo tecnica e gamba, hanno gli attributi per guidare, comandare, trascinare, anche rimproverare se necessario, autorevolezza conquistata a suon di esempi per gli altri, sudore, sacrificio per andare a recuperare una palla.
E poi Lautaro, baciato dagli dei della personalità con il mondiale vinto, tornato dal Qatar con le stimmate del campione riconosciuto da tutti.

Un abbraccio totale

E per finire l’emozione dell’abbraccio collettivo che dalle 22,43 del 22 aprile unisce milioni di interisti da Piazza Duomo a Pantelleria, da Brooklyn a Nanchino, un abbraccio che seppellisce delusioni e lacrime.
Ma seppellisce anche avversari e commentatori, primi tra tutti coloro che parlano non di 20 scudetti ma di 19 con l’asterisco.
Quello di ieri sera sarà per molti lo scudetto più bello, quello del 2006, per tutti gli interisti, è lo scudetto più giusto.
E se le cose fossero andate come dovevano “oggi ne avremmo almeno 25” (cit.Massimo Moratti).